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Dall’Everest all’Alaska fino alla Terra del Fuoco: ecco la vita ‘off limits’ di Stefano Farronato, sognando l’Antartide

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Esistono vite avventurose, attratte dal superamento del limite umano, dalla conquista dell’ignoto, dell’inesplorato, dalle prove più estenuanti che rasentano l’impossibile

Stefano Farronato si racconta tra mille avventure alla scoperta del mondo

 

di Liliana Cerqueni

NordEst – Stefano Farronato, è arboricoltore e agri-management bassanese, trapiantato da un anno a Mezzano, nel Primiero, in Trentino. Stefano, 45 anni, ha cominciato a viaggiare “off limits” nel 2000, affrontando ogni tipo di difficoltà in luoghi proibitivi per condizioni climatiche, percorsi impervi, accessibilità, sopravvivenza e ogni tipo di rischio per l’essere umano.

Perché, Stefano? Domanda retorica, fin troppo scontata…

E’ di difficile risposta perché si fa fatica far capire a chi mi ascolta, come si possano affrontare avventure estreme rischiando anche la propria vita, ricavandone alla fine un piacere, un’immensa soddisfazione.

Queste avventure hanno uno strano profumo, l’euforia, che poi si trasforma in terrore, superato il quale provi un grande benessere che dura nel tempo.

Tutto comincia con l’immaginare, il sognare l’avventura, poi segue l’organizzazione, la pianificazione, la preparazione di tutto e quando la realizzi, ti rendi conto dei tuoi limiti oggettivi di visione, fisici, psicologici. Ma quando torni a casa, assapori il vero piacere di raccontarla, anche negli aspetti più drammatici. E ogni impresa avventurosa terminata, lascia il posto a una nuova sfida.

Come sono cominciati i tuoi viaggi?

Prima del 2000 questo era un terreno completamente sconosciuto: avevo 25 anni, venivo da esperienze completamente diverse, organizzavo concerti, lavoravo nei locali. Poi, improvvisamente, ho deciso di cominciare col Nepal, al Campo base dell’Everest, in una catena dell’Himalaya che mai avrei immaginato di affrontare, con un gruppo capitanato da Walter Berlino, oggi famoso alpinista piemontese. 

Alla base dell’Everest mi si sono aperte completamente le porte della percezione ed ho scoperto che ‘esiste un mondo’ oltre il mio paesetto, il mio microcosmo provinciale. Una sorpresa straordinaria. Da là è iniziata la mia curiosità, la mia determinazione nel voler scoprire il nuovo, e la mia consapevolezza che esistono persone che hanno bisogno di affrontare l’estremo, l’eccezionale, l’inusuale. E io sono una di queste.

Conoscere il mondo attraverso ciò che ho affrontato è il massimo che la sete di esperienza umana possa chiedere. Ricordo quando da bambino seguivo in televisione Ambrogio Fogar con le descrizioni di viaggi esplorativi affascinanti e quelle immagini mi sono rimaste in testa. Ho ripetuto l’esperienza nel 2003, quando ho scalato un satellite dell’Anapurna, un 8000 metri. Impresa non portata a termine perché la mia compagna è stata colpita da edema cerebrale. Me la sono portata giù a braccia e lì capisci quanto fragili siamo.

Nei tuoi viaggi usi modalità di spostamento molto diverse: canoa, cavallo, sci, bicicletta, running, trekking, arrampicata…

Io sono convinto di essere una persona mediocre come capacità fisiche e mentali e non ho mai voluto specializzarmi in performances particolari. La mia caratteristica è essere semplicemente e profondamente curioso, quindi ho sempre affrontato ogni viaggio con modalità diverse, che la circostanza richiedeva. Io non cerco la straordinarietà delle mie prestazioni bensì quella della scoperta del mondo.

Dove sei stato dopo l’Everest?

Dopo l’Everest sono stato in Patagonia nel 2001, Fitz Roy, Cerro Torre, Perito Moreno, Ushuaia, l’ultimo avamposto abitato nelle Terre del Fuoco, la citta più a sud del mondo. Di questo viaggio non conservo un bel ricordo forse perché quando sono arrivato in Argentina è scoppiata la crisi e là ho trascorso solo 20 giorni veramente difficoltosi: problemi economici, non si poteva cambiare valuta, la pesante tensione sociale, l’esercito dappertutto, ci sono stati dei morti. Ricordo quando sono arrivato in Plata de Maio è arrivato l’esercito, ha sparato uccidendo delle persone. Ho visto saccheggiare supermercati e farmacie dagli argentini in preda al panico.

Dal 2000 hai intrapreso in media un viaggio l’anno. Dove sei stato successivamente?

Nel 2004 ho attraversato in Islanda la calotta polare del Wattanaiar Cool in autonomia, dove abbiamo avuto grossi problemi perché i punti neve non tenevano dopo un 2003 molto caldo. Nel 2005 sono andato in Equador e ho deciso di scalare i vulcani più alti del Paese, come il Chimborazo. Là ho potuto fare una bellissima esperienza come arboricoltore che cura gli alberi: ospitato da una tribù in piena foresta amazzonica, raccogliendo i loro saperi, ho visto e toccato gli effetti devastanti del disboscamento forzato. Ho mangiato formiche e piranha, ho visto nuotare con gli alligatori a una decina di metri e le tarantole girare nelle scarpe. Sono stato ospite anche in una casa di sole donne con figli, ‘Casa Condor’, vedove e orfani di uomini morti in miniera.

Dopo l’esperienza in Ecuador, quali altre mete?

C’è stata la Mongolia occidentale: una scelta folgorante che mi ha portato a scalare a vista la più alta montagna mongola, ai confini con la Cina e il Kazakistan, con un ghiacciaio di 19 km, con un avvicinamento alla base con cavalli e cammelli. La Mongolia e i Mongoli mi sono rimasti nel cuore con la loro dignità, i loro silenzi.

 Ricordo la felicità di due bambini mentre assaporavano un’arancia che avevo donato loro e che conoscevano per la prima volta. Successivamente ho fatto dei voli in parapendio in mezzo alle aquile, sul lago di Pokhara, in Nepal, dopo di che ho dovuto fermarmi un anno e mezzo per un incidente, una caduta da un albero di 8 metri che mi ha ridotto in coma. Un periodo terribile con molte conseguenze, prima di tutte la sensazione costante della morte, la depressione, la sensazione che tutto fosse finito.

Come hai ripreso a vivere, Stefano? Come ne sei uscito?

Ho ricominciato con la determinazione, facendomi forza, recuperando un giorno un austriaco col parapendio, finito su un albero, sull’altopiano del Grappa (operazione che facevo prima, ogni volta che il soccorso alpino non era in grado di intervenire). E’ stata la mia rinascita, la ripartenza. Sono ricominciati i viaggi partendo con la Groenlandia. Un mondo da vedere, prima che scompaia… Facevo parte di una spedizione internazionale, due spagnoli, un argentino ed io. Uno sponsor metteva a disposizione l’attrezzatura e noi dovevamo percorrere il Sud della Groenlandia con gli sci e pulka in autonomia. Esperienza molto forte: alla mèta è arrivata una lunga e violenta perturbazione dal Polo Nord e non era possibile recuperarci con l’elicottero. Senza gas e viveri, -30°, quattro giorni da incubo finiti bene, con l’arrivo dell’elicottero della guardia costiera danese. Ho impiegato nove mesi per sbloccarmi e raccontare la storia.

Non pago delle spedizioni avventurose dai risvolti eccezionali, cos’è successo negli anni che seguono?

C’è la Cina in solitaria con gli sci, sul Muztagata, la seconda cima più alta del Pamir. Un 7500 metri che ho abbandonato ad un certo punto a causa di una bronchite, rinuncia che mi ha indotto a riflettere sulle sconfitte, la consapevolezza del limite. E’ stata poi la volta delle isole Svalbard in kayak con la mia compagna alla ricerca dell’orso bianco che abbiamo avvistato, come pure le balene.

Segue l’Alaska nel 2014 con la mia compagna, e nel 2015 in solitaria in bicicletta, 1400 km, seguendo la Dalton Highway, una delle strade più pericolose al mondo, in mezzo al nulla, dove ogni tanto passano solo camion delle aziende petrolifere: una bicicletta, la mia, che viaggia lungo il metanodotto. Quel viaggio racconta la vita degli alaskani, il problema dell’acqua e dei moskitos, del permafrost, del climate change.

E poi ancora, nel 2017, un’avventura d’inverno a -40°/-45°, cimentandomi nella gara più estrema al mondo nello Yukon, Canada, la Yukon Artic Ultra, 600 km trainando una pulka, 9 giorni tempo massimo. C’era l’85% di umidità e le temperature sono scese a -50°: una follia, una condizione non prevista. Dei 22 partecipanti ci siamo ritirati in 19. Ho avuto principio di congelamento alle falangi.

All’altro italiano con me, Roberto Zanda, di cui si sono occupati tutti i telegiornali, hanno dovuto amputare mani e piedi. L’ipotermia non perdona. Il gelo di penetra e ti divora, ti paralizza e tu non puoi scappare. Ci sono tornato nella scorsa estate, sul fiume Yukon, perché volevo riconciliarmi con lui e viverlo nella stagione più calda cogliendo tutto ciò che non ho potuto vedere e conoscere. L’ho percorso in canoa in solitaria in tutto il tratto di quella drammatica gara.

Che desideri hai per il futuro? Cosa vedi davanti a te?

A febbraio torno in Patagonia dopo 18 anni: ne ho bisogno e un amico ha organizzato tutto. Prima o poi io devo mettere i piedi in Antartide e poi ho in mente un viaggio in catamarano ancora una volta alle Svalbard, su un’isola dove c’è la più affollata colonia di orsi bianchi, in una caccia fotografica di questi splendidi esemplari. Vedremo! Altra esperienza tutta da costruire: la foresta del Borneo che mi interessa anche come professionista.

Viaggi che hanno alimentato lo spirito di avventura, hanno fatto assaporare sensazioni forti di esaltazione ma anche di impotenza davanti alla forza della natura. Hanno permesso la creazione legami forti e tanta conoscenza; hanno condotto alla consapevolezza che l’invincibilità non è una condizione umana e che l’incognita è dietro ogni angolo.

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