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Generazioni di persone sono cresciute con un’idea di benessere che comprendeva il soddisfacimento dei bisogni di base e basta

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di Annalisa Borghese

Un tetto sopra la testa, di che mangiare, due soldi per vivere, un abbraccio. Se avevi tutto questo non c’era motivo di malcontento

In realtà non era proprio così. Solo che dopo quello che avevano vissuto nella prima metà del secolo scorso – ristrettezze, fame, malattie, guerre – non potevano permettersi di farsi tante domande e di stare in ascolto di emozioni che creavano qualche scompiglio. Però c’erano, ci sono sempre state perché fanno parte dell’animo umano, della nostra storia e di quello che siamo.

Riconoscere e imparare a gestire tutte le emozioni è una competenza di cui si è incominciato a parlare in modo divulgativo attorno alla metà degli anni Novanta. L’educazione non può prescindere da questo, eppure la scuola è arrivata ancora dopo quando si è introdotto il concetto di cittadinanza attiva.

 

Il benessere di fatto passa attraverso le emozioni, anzi attraverso la consapevolezza di che cosa le muove (emozione significa proprio energia in movimento), di come possiamo gestirle senza farci travolgere e di come allargare lo sguardo dall’individualismo esasperato – io al centro del mondo – ad una visione empatica che favorisce relazioni cooperative.

 

Nel suo “Intelligenza emotiva per un figlio”, edito da Rizzoli nel 1997 e seguito da diverse ristampe, lo psicologo John Gottman ci ha fornito uno dei primi strumenti pratici per chiarirci le idee a riguardo e diventare allenatori emotivi dei nostri figli. Sempre attualissimo, da leggere con calma magari accompagnato da una tisana alla menta che stimola la concentrazione. Ottima anche a temperatura ambiente.

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