Primo Piano Primiero Vanoi Storie di Vita

Da Primiero alla Hudson Valley, Chiara Crepaz si racconta dall’America

Share Button

Quando viaggiare, imparare, osare, diventa la chiave di volta del cambiamento

di Liliana Cerqueni

 

New York (Usa) – Chiara Crepaz è partita da Primiero con un visto di un anno per gli Stati Uniti e un contatto con una famiglia newyorkese presso la quale alloggiare come ragazza alla pari. E questo è l’inizio; tutto ciò che è accaduto poi è stata una sorpresa per Chiara stessa, travolta e conquistata da una realtà e da una cultura diversa che l’ha messa alla prova e alla fine gratificata ampiamente.

Cosa ti ha spinta a scegliere gli Stati Uniti?

Ero già stata a New York nel 2008 e mi ero già innamorata della città. Ad un certo punto della mia vita, nel febbraio del 2014, ho rinunciato all’idea dell’Australia optando per gli Stati Uniti, pur conscia che il mio inglese non fosse granché. Qualcuno mi aveva parlato del programma Au Pair negli Stati Uniti e pensai che fosse una bella idea: sarei stata un anno presso una famiglia e avrei praticato la lingua, senza accantonare il progetto Australia. Ma i piani non sono andati come previsto ed eccomi ancora qui, mai mossa da New York. Mai mi sarei aspettata di finire in mezzo al verde più verde, sulle rive dell’Hudson, circondata da cerbiatti, opossum, orsetti lavatori e coniglietti da favola Disney. Sono veramente grata di essere atterrata a New York e venire qui è stata una grande lezione di vita. Ho compreso cosa vuol dire credere che tutto è possibile e quando mi dissero che per iscrivermi a scuola ci sarebbero voluti 12,000 dollari all’anno senza contare i libri e materiale vario, non mi sono lasciata spaventare.

Alla fine ho speso 31,000 dollari in 3 anni e mezzo solo in rate scolastiche, partendo con 5,000 euro in banca. Ho capito anche che si possono raggiungere spazi infiniti una volta usciti da Primiero; viaggiare apre la mente e mette le ali. Una delle qualità positive degli Stati Uniti è questa pazzia un po’ generale che spinge sempre a provare cose nuove. Ed io ho idee e progetti da realizzare nel settore medico. Hai mai sentito parlare delle casette Ronald McDonald, ad esempio? Delle camere bellissime, tutte a disposizione delle famiglie dei ricoverati in lungodegenza all’ospedale vicino casa mia, costruito e mantenuto solo con donazioni. Oppure Make A Wish, una fondazione che permette a dei bambini con malattie terminali di esprimere l’ultimo desiderio, anche questo basato solo su donazioni. E’ meraviglioso vedere quante cose sarebbero possibili se solo si fosse capaci di lanciarsi in nuove iniziative.

Come ti sei inserita nella tua nuova realtà?

Ero a Irvington, una delle cittadine della Hudson Valley, a circa 45 minuti dal Centro Manhattan. Ero ragazza alla pari in una famiglia in cui la mamma era organizzatrice di eventi, il papà direttore di un camp per bambini con sindrome di Tourette, due bambini piccolissimi e un cane husky. Nei weekend liberi, ho visitato Miami, Chicago, Philadelphia, Boston, Cape Cod, Montreal, Whashington… Sono rimasta un secondo anno in USA presso un’altra famiglia ed ho potuto iscrivermi a scuola, ad infermieristica, su suggerimento di una advisor. Nei tre anni successivi, lavoro e studio sono stati la mia vita, tra alti e bassi, contrattempi e qualche difficolà ma alla fine eccomi qua: mi sono appena laureata. Il mio lavoro, la borsa di studio e la mia determinazione mi hanno permesso tutto questo.

Ti fermerai in USA?

Vorrei continuare a studiare. Dopo aver ricevuto una laurea negli Stati Uniti, il visto studentesco mi permette di restare per un altro anno, a patto che trovi lavoro in 90 giorni. Al momento sto studiando per l’esame di stato, che mi permetterà di avere la licenza per lavorare come infermiera nello stato di New York. Appena superato, potrò cominciare a mandare il mio curriculum nei vari ospedali. Spero di trovare lavoro in pediatria, nello specifico vorrei cominciare al CHAM (Children Hospital At Montefiore), che è un ospedale molto rinomato e che potrebbe sponsorizzarmi per un visto lavorativo. In ogni caso, Primiero e l’Italia in generale mancano sempre tanto, per quanto ormai mi senta parte di questo ambiente. Per il momento prendo anno dopo anno e vedo dove arrivo. Primiero è sempre lì, nel caso volessi rientrare in futuro.

Com’è la vita newyorkese?

Io abito in periferia, quindi tutto un altro stile di vita rispetto a Manhattan. Sicuramente quello che ci accomuna con la città è la fretta. Da quando sono arrivata ho imparato a non usare l’orologio, so calcolare tutti i tempi alla perfezione, addirittura ho imparato quasi tutti i tempi dei semafori della mia zona a memoria, così non mi trovo a dover perdere minuti preziosi nel traffico. E’ ridicolo, lo so, ma qui è meglio arrivare mezzora prima che un minuto dopo.

Mi sono accorta di quanto sia diventata così precisa quando sono venuti i miei genitori a trovarmi, perché mi mandava fuori di testa doverli aspettare anche solo per un paio di minuti. L’altra cosa sono i pasti. Noi ci sediamo a tavola solo la sera. La maggior parte dei giorni non mangio a pranzo, oppure mi porto gli avanzi della cena e mangio in macchina o dovunque mi trovo. Se sono a casa faccio qualcosa di veloce mentre carico una lavatrice. Il fine settimana mangio una volta al giorno, di solito verso le 3, e faccio uno spuntino la sera verso le 7.

Mi sono accorta di come la questione cibo venga lasciato in secondo piano rispetto altro. Per il resto, Manhattan è magica. Dappertutto e a tutte le ore c’è qualcosa da fare. Ci sono piccoli bar sulle strade più improbabili che nascondono un seminterrato dove ogni mercoledì c’è una “stand-up comedy” con ingresso gratuito, oppure musica live di artisti mai sentiti, o ancora un pezzo di pizza gratis fatta al momento con l’acquisto di una bibita. Quello che mi sbalordisce di più è quanti eventi gratuiti ci sono, tutti i giorni a tutte le ore. Ci sono lezioni di yoga nel parco di Brooklyn Bridge durante il weekend, oppure film proiettati su schermi giganti con vista sull’Hudson. New York è fantastica.

Dal pianista a Washington Square Park al Naked Cowboy a Times Square, dalle partite di scacchi e ping pong a Bryant Park ai campi di beach volley a Central Park, Manhattan ha qualcosa da offrire ogni momento. La gente è fenomenale. Sei sulla metropolitana schiacciata da altri poveracci come te che non vedono l’ora di uscire e un signore si allunga per farti notare che le cuffiette escono dalla tasca dello zainetto che ho sulla schiena. Proprio di recente ero a Manhattan, una signora che si stava facendo fare il ritratto in strada, si alza correndo dietro ad un passante a cui erano caduti gli occhiali mentre altre tre persone chiamavano dicendo “Ma’m, your sunglasses!” Io mi sento più sicura a Manhattan che in qualche cittadina italiana, onestamente.

Gli Stati Uniti costituiscono sempre una grande opportunità per un giovane che viene dall’Europa?

Assolutamente si. Gli Stati Uniti non sono facili da conquistare. Ci vuole coraggio e tenacia. Il visto turistico dura solo 3 mesi, alla fine dei quali bisogna rientrare se non si vuole venire banditi per 3 o 10 anni. Allo stesso tempo, però, una volta fatta breccia, la ricompensa è grande. La gente qui a NY è molto generosa. Si cresce con l’abitudine di dare le mance, di fare offerte in chiesa (non l’euro o i 50 centesimi che diamo noi, qui si parla di 6,000-8,000 dollari che vengono raccolti in un weekend), di partecipare ad attività e cene per raccolta fondi per associazioni umanitarie (che sono molte) e soprattutto viene data molta importanza al volontariato.

Per esempio, nelle scuole superiori i ragazzi sono obbligati ad avere un totale di ore di volontariato alla fine dell’anno scolastico. Finora ho potuto apprezzare che la meritocrazia è possibile, almeno nel piccolo dell’esperienza che sto vivendo. In 3 anni ho ricevuto 12,000 dollari in borse di studio, che sono elargite da privati, persone che, dopo la propria morte, hanno deciso di mettere a disposizione una certa somma di denaro per uno studente con determinate caratteristiche.

Un giorno ho avuto la fortuna di parlare al telefono con un professore Italiano in pensione che mi ha scelto per una delle due borse di studio di 1,000 dollari l’una, anche se quella era la prima volta che mi incontrava, solo per essere l’unica studente Italiana arrivata fino a quel punto da sola. Quando mi sono laureata, ci sono stati invitati che mi hanno dato 200 dollari o più, oltre a pagare per la propria cena. Io resto davvero senza parole davanti a tanta generosità. Qui gli stipendi sono più alti, ma anche il costo della vita lo è. Un giovane Europeo che dimostra elasticità mentale e forza di volontà viene assolutamente premiato negli Stati Uniti, più di ogni altro stato nel mondo.

Cosa consiglieresti ad un giovane che vuole sperimentare un’esperienza in America? (canali informativi, contatti)

La maniera più semplice è venire con un visto da turista. Si fa online, costa intorno ai 14 dollari ed è un processo velocissimo e non serve stampare niente: l’immigrazione ha in automatico tutte le informazioni che verranno usate all’entrata, come per esempio l’indirizzo e contatto d’emergenza. Con questo visto si può stare per un massimo di tre mesi, ma si può uscire e rientrare per due anni.

Il visto con cui sono venuta io si chiama J1 ed è per chi è interessato ad uno scambio culturale. E’ più costoso, intorno ai 200 euro, e dura un anno con l’opportunità di estenderlo per un secondo. L’esperienza dell’Au Pair è stata molto significativa per me. La consiglio a tutti. Io ho usato questo sito e questa agenzia ma ce ne sono tantissime che prendono ragazze alla pari. https://culturalcare.com/. Per quanto riguarda studiare negli Stati Uniti, secondo me è più conveniente partire con una laurea, puntando al master o al dottorato. Certi college danno la possibilità di richiedere borse di studio prima di immatricolarsi.

Ci sono settori che più di altri necessitano di personale, come per esempio l’ambiente ospedaliero, ma c’è una prassi da seguire. Per esempio, un’infermiera con una laurea presa in Italia deve passare l’esame di licenza nello stato in cui vuole lavorare e poi deve trovare un ospedale che la sponsorizzi. Sponsorizzare significa dimostrare all’ufficio immigrazione che la persona da assumere ha delle caratteristiche che un Americano non ha. Questo è il passaggio più difficile, a meno che non si abbiano già delle conoscenze nel settore o all’ospedale, in questo caso.

L’altro modo è arrivare con dei visti specifici, per esempio il Q1, che viene rilasciato dall’ambasciata Italiana per qualche lavoro temporaneo (di solito un anno) all’interno dell’ambasciata in America o in altri settori, per esempio Disneyland a Orlando, Florida. Il Q1 non è facile da ricevere e c’è bisogno di una persona che costantemente sia il punto di riferimento dell’assunto e il suo responsabile, accertandosi che dopo l’esperienza lasci l’America.

Per quanto riguarda il visto da studente, F1, si fa domanda all’ambasciata in Italia, avendo già i documenti della scuola che si vuole frequentare, sapendo già l’indirizzo di dove si andrà ad abitare, mostrando sul conto corrente almeno il doppio della rata scolastica (compresa di vitto e alloggio, libri e trasporto). Questo è il sito del governo dove ci sono tutte le informazioni sui visti https://travel.state.gov/content/travel.html.  Un altro sito che mi piace è https://www.ilmioviaggioanewyork.com/ Molto carino per chi è interessato anche solo a farsi un giro a Manhattan.

Share Button

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *