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Europa, Sessantesimo anniversario della firma dei Trattati di Roma. Mattarella: “Fiducia e Unità d’Intenti” (IL DISCORSO)

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Nell’Aula di Montecitorio ha avuto luogo la celebrazione parlamentare del sessantesimo anniversario della firma dei Trattati di Roma che ricorre il 25 marzo. Trattati di Roma, le tappe dei 60 anni di storiaSit-in della Lega in Piazza Montecitorio: “Ue affama i popoli”

Roma – Alla presenza del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e dei Presidenti di Senato e Camera, si sono riuniti in seduta solenne deputati, senatori, parlamentari europei eletti in Italia, e rappresentanti degli organi costituzionali e alte cariche istituzionali. Dopo gli interventi introduttivi della Presidente della Camera dei Deputati, Laura Boldrini, e del Presidente del Senato della Repubblica, Pietro Grasso, è intervenuto il Capo dello Stato.

Celebrazioni a Camere riunite per i 60 anni dalla firma dei Trattati di Roma. A Montecitorio interviene il capo dello Stato Sergio Mattarella e sono presenti i presidenti delle Camere e il premier Paolo Gentiloni.

L’emiciclo è affollato da deputati, senatori e parlamentari europei, arrivati a Roma per l’occasione. Assenti i parlamentari della Lega Nord, che hanno deciso di manifestare in piazza. Mentre Umberto Bossi ha invece partecipato alla cerimonia. “Preferisco sempre sentire le cose per poi ragionarci”, ha detto il Senatur a chi gli chiedeva della sua presenza in Aula.

Il discorso integrale del presidente Mattarella


Signora Presidente della Camera,

Signor Presidente del Senato,

Signor Presidente del Consiglio,

Onorevoli Senatori,

Onorevoli Deputati,

Rappresentanti del Parlamento europeo,

sono onorato di prendere la parola in questa solenne seduta comune con cui il Parlamento ha deciso di celebrare il sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma.

Fra tre giorni i Capi di Stato e di Governo dei Paesi dell’Unione si riuniranno in Campidoglio, nella medesima sala che ne ha visto l’atto di nascita.

La celebrazione di questo anniversario richiede che sul percorso di integrazione europea si svolga una riflessione, la cui necessità è accresciuta dall’uscita, per la prima volta, di un Paese dell’Unione, il Regno Unito, membro dal 1973.

Un primo interrogativo riguarda quali fossero la situazione dell’Europa e le condizioni del mondo prima dei Trattati, se più semplici o più difficili di quelle di oggi.

A spingere i fondatori, all’inizio, fu una condizione internazionale di forte instabilità, caratterizzata da una competizione bipolare a tutto campo.

L’Europa, Unione Sovietica a parte, dopo il conflitto mondiale, si scopriva divisa e più debole.

Il confine tra le due superpotenze passava nel cuore del continente e l’avrebbe tenuta separata, a lungo, in due tronconi.

Pochi anni prima i rischi di una terza guerra mondiale si erano manifestati con il blocco di Berlino e con la guerra di Corea. A stento, nel 1955, si riusciva a regolare la questione austriaca, sotto clausola di neutralità. Si sviluppava l’insurrezione dell’Algeria per l’indipendenza, conquistata da Tunisia e Marocco nel 1956. In quello stesso anno l’invasione dell’Ungheria e la crisi del canale di Suez. Con questa si chiudeva un’epoca e le potenze europee venivano liberate da residue illusioni colonialista.

Quella situazione di fragilità poneva l’esigenza di ridare una prospettiva all’Europa.

Nel 1951 nasceva la Comunità del carbone e dell’acciaio, l’anno dopo il Trattato, arenatosi poi in Francia, del progetto di Comunità europea di difesa.

Sarebbe stata l’Italia, prima con la Conferenza di Messina, nel 1955, poi con quella di Venezia del 1956, ad esserne motore traente, con Gaetano Martino, ministro degli Esteri nel governo Segni, fra i protagonisti.

I padri dell’Europa, che dettero vita ai Trattati, con il consenso democratico dei loro Paesi, non erano dei visionari bensì degli uomini politici consapevoli delle sfide e dei rischi, capaci di affrontarli.

Uomini che hanno avuto il coraggio di trasformare le debolezze, le vulnerabilità, le ansie dei rispettivi popoli in punti di forza, mettendo a fattor comune le capacità di ciascun paese e puntando a realizzare una grande società aperta, nella quale libertà, democrazia e coesione fossero reciprocamente garantite.

L’Europa che abbiamo conosciuto in questi anni è stata uno strumento essenziale di stabilità e di salvaguardia della pace, di crescita economica e di progresso, di affermazione di un modello sociale sin qui ancora ineguagliato, fatto di diritti e civiltà.

Alla sua progressiva costruzione hanno preso parte ex nemici della seconda guerra mondiale; poi gli ex avversari della “guerra fredda”, fino a pochi anni prima appartenenti ad alleanze, per quaranta anni pronte a combattersi.

Se guardiamo alla strada percorsa ci rendiamo conto di come non sia stato mai un cammino facile, sin dall’inizio.

Negli annali, a rendere difficile il percorso dell’integrazione, fu dapprima la politica della “sedia vuota” della Francia, a metà degli anni ’60 del secolo scorso.

Venne poi quella che il ministro degli esteri tedesco Hans-Dietrich Genscher avrebbe definito “eurosclerosi” negli anni ’70, superata coraggiosamente, all’inizio del decennio successivo, per impulso soprattutto italo-tedesco.

Interprete, per il nostro Paese, il ministro degli esteri Emilio Colombo, con il concorso di personalità quali il Cancelliere tedesco Helmuth Kohl e il Presidente della Repubblica francese, Francois Mitterand; e dello stesso Presidente Usa, Ronald Reagan.

Choc dei prezzi petroliferi, alta inflazione, ampia disoccupazione, i problemi che, in quel periodo, si dovettero affrontare, in un contesto internazionale segnato da un confronto particolarmente aspro fra i due blocchi.

La spinta all’unità europea si è sempre rivelata, comunque, più forte degli arroccamenti e delle puntigliose distinzioni pro-tempore di singoli governi o di gruppi di Paesi, giocando un ruolo significativo anche nel contributo alla evoluzione delle relazioni internazionali.

Del resto erano state pressanti le esigenze condivise alla base della comune aspirazione a rendere stabili, con l’integrazione, la libertà e l’indipendenza per i Paesi europei, a partire dai sei fondatori: Francia, Belgio, Germania, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi.

Oggi l’Europa appare quasi ripiegata su se stessa. Spesso consapevole, nei suoi vertici, dei passi da compiere, eppure incerta nell’intraprendere la rotta.

Come ieri, c’è bisogno di visioni lungimiranti, con la capacità di sperimentare percorsi ulteriori e coraggiosi.

A questo riguardo è opportuno tener conto di alcuni dati.

L’Unione e i suoi Stati membri nell’anno 2000 hanno prodotto il 26,5% del Prodotto Interno Lordo mondiale. Questa percentuale è scesa, nel 2015, di ben quattro punti.

La popolazione dell’intero continente europeo – quindi anche al di fuori dei confini dell’Unione – è rimasta sostanzialmente stabile negli ultimi venti anni, intorno ai 750-800 milioni di persone. Al contempo la popolazione africana, che oggi si aggira intorno al miliardo, potrebbe raddoppiare in appena venticinque anni.

Già questi due soli elementi rendono evidente che l’Europa nel suo complesso rischia di diventare più piccola sullo scacchiere internazionale, mentre, nel mondo, gli stati “giganti” continuano a crescere.

Nessun Paese europeo può garantire, da solo, la effettiva indipendenza delle proprie scelte. Nessun ritorno alle antiche sovranità nazionali potrà garantire ai cittadini europei pace, sicurezza, benessere e prosperità, perché nessun Paese europeo, da solo, potrà mai affacciarsi sulla scena internazionale con la pretesa di influire sugli eventi, considerate le proprie dimensioni e la scala dei problemi.

Oggi, come sessanta anni fa, abbiamo bisogno dell’Europa unita, perché le esigenze di sviluppo, di prosperità del nostro Continente sono, in maniera indissolubile, legate alla capacità collettiva di poter avere voce in capitolo sulla scena internazionale, affermando i valori, le identità, gli interessi dei nostri popoli.

Nel 1957, e ancor prima, quando i Padri fondatori, Adenauer, De Gasperi, Monnet, Schuman, Spaak, concepirono il primo disegno di integrazione, l’identità europea non era oggetto di dubbi o di discussione. Non vi era bisogno di ricorrere a metafore astratte.

I lutti, la fame, le macerie, le malattie, l’angoscia esistenziale provocate dalle due guerre mondiali – da est a ovest, da nord a sud – accomunavano milioni di europei che, con sempre maggiore insistenza, si chiedevano “perché?” rivolgendosi alle rispettive classi dirigenti con un categorico “mai più!”.

Era del tutto evidente, e comprensibile a tutti, quali erano state le conseguenze dell’aver tradito – per ben due volte nel breve volgere di pochi anni – i valori della civiltà europea.

La chiamata a raccolta dei Padri fondatori stava appunto nell’aver ricordato che l’Europa dell’apertura e della solidarietà, dell’arte e delle scienze, l’Europa del libero pensiero, della tolleranza e dell’integrazione, l’Europa dei commerci, doveva ritrovare il proprio percorso e poteva farlo soltanto insieme, riunendo le capacità e il futuro dei Paesi e dei popoli del Continente.

La permanenza di tanti Stati europei sovrani e separati, appariva loro, in questo senso, anacronistica, non meno di quanto lo fossero i liberi Comuni e i piccoli principati in Italia nel secolo XVI, davanti all’urto di potenze come Spagna e Francia.

Dieci anni prima, il 29 luglio 1947, in quest’aula, Luigi Einaudi, a pochi mesi dalla sua elezione a presidente della Repubblica, preannunciando il suo voto favorevole al Trattato di pace, pronunciava queste parole:

“Invano gli Stati sovrani elevavano intorno a sé alte barriere doganali per mantenere la propria autosufficienza economica. Le barriere giovavano soltanto ad impoverire i popoli, a inferocirli gli uni contro gli altri, a far parlare a ognuno di essi uno strano incomprensibile linguaggio di spazio vitale, di necessità geopolitiche, e a far a ognuno di essi pronunciare esclusive scomuniche contro gli immigrati stranieri, quasi il restringersi feroce di un popolo in se stesso potesse, invece di miseria e malcontento, creare ricchezza e potenza”. Soggiungeva, auspicando gli Stati Uniti d’Europa: “non basta predicarli. Quel che importa è che i Parlamenti di questi minuscoli Stati i quali compongono la divisa Europa, rinuncino a una parte della loro sovranità a pro di un Parlamento nel quale siano rappresentati, in una Camera elettiva, direttamente i popoli europei nella loro unità, senza distinzione tra Stato e Stato e in proporzione al numero degli abitanti e nella camera degli Stati siano rappresentati, a parità di numero, i singoli Stati”.

L’alternativa reale, in altre parole, ci dice Einaudi, da settanta anni, è – ancor oggi, tra la frantumazione e l’irrilevanza di ciascuno e, invece, un processo di unificazione basato non sull’egemonia del più potente ma su uno sviluppo pacifico per mezzo di istituzioni federali e democratiche (è, questa, la lezione di Altiero Spinelli), con eguaglianza di diritti e doveri per tutti gli Stati, grandi e piccoli, che liberamente decidano di aderirvi.

Del resto, anche Winston Churchill, l’anno precedente, aveva auspicato una struttura che ricostruisse la famiglia dei popoli europei e le permettesse di vivere in pace, in sicurezza e in libertà: “una sorta – disse – di Stati Uniti d’Europa”.

In questi sessant’anni di storia l’Europa è riuscita a mantenere la promessa centrale e fondante della propria identità.

La guerra è stata tenuta lontana e, per la prima volta da tempo immemorabile, tre successive generazioni non ne hanno conosciuto la barbarie.

Ad accorgersene sono stati altri, in un Paese che non fa parte dell’Unione, assegnando nel 2012 – fra lo stupore di alcuni – il Premio Nobel per la Pace all’Unione Europea.

E quando un duro scontro armato si è avvicinato ai confini dell’Unione, nella penisola Balcanica, pur fra incertezze e iniziali indecisioni, l’Europa ha preso coscienza dell’importanza di aiutare quei popoli vicini a uscire da una crisi che sembrava senza soluzione.

L’Unione ha deciso di offrire a quei Paesi un approdo politico nel quadro europeo. Grande è quindi la soddisfazione nel vedere la Slovenia e la Croazia far parte oggi dell’Unione e gli altri paesi impegnati in un percorso di integrazione progressiva che l’Italia segue attentamente, favorisce e incoraggia.

Né va dimenticato che la comune appartenenza all’Unione ha fatto estinguere la lunga, sanguinosa, scia di violenza nell’Irlanda del Nord.

Nel tempo, l’Unione Europea è stata l’approdo per popoli e Paesi segnati nella storia da dittature e tornati alla libertà: Grecia, poi Portogallo e Spagna han trovato nella Comunità europea un ancoraggio sicuro per il loro destino. E’ stata poi la volta dei Paesi reduci dalla influenza sovietica – dopo il 1989 – di riunirsi a un’Europa priva, sin lì, dell’apporto dei popoli e delle culture centro-orientali.

La pluralità di sensibilità, le posizioni politiche, le tradizioni nazionali presenti nell’Unione oggi, hanno portato qualcuno a interrogarsi se sia stato saggio procedere velocemente sulla strada dell’allargamento.

Ma neppure l’Europa può permettersi di rinviare gli appuntamenti con la storia, quando essi si presentano, né possono prevalere separatezze e, tantomeno, amputazioni. Va, piuttosto, praticata e accresciuta la vicendevole responsabilità, la solidarietà nei benefici e negli oneri.

L’identità europea è costituita dall’insieme del patrimonio culturale e della eredità storica di ciascuno e da un patrimonio di principi condivisi, sviluppato congiuntamente in questi decenni. Ciò che serve è prevedere i mezzi adatti a far sì che la integrazione possa proseguire.

Questi anni di pace, benessere e prosperità dell’Europa ci hanno consentito di raggiungere traguardi di cui gli stessi Padri fondatori sarebbero giustamente fieri, malgrado limiti e carenze.

I profili dell’Europa per i nostri concittadini sono molti.

Sono le migliaia di dogane e di regolamenti nazionali aboliti per la circolazione delle persone e delle merci, circostanza preziosa per noi, Paese esportatore.

Sono i nostri prodotti stipati negli scaffali dei supermercati delle città europee, visto che oltre il 60% delle nostre esportazioni è diretto proprio a Paesi dell’Unione.

Sono i 100 milioni di turisti che, ogni anno, senza bisogno di alcun passaporto, si muovono, liberamente e senza ostacoli – in tanti in Italia – grazie allo spazio del Trattato di Schengen.

Sono i milioni di giovani che studiano liberamente nelle università europee nel programma Erasmus.

E’ la moneta comune divenuta, nel breve volgere di tempo, il secondo strumento di riserva a livello mondiale. L’euro, grazie alla politica della Banca Centrale Europea, ha provocato il forte abbassamento dei costi del credito, tutelando i risparmi delle imprese e delle famiglie.

E’ il livello di protezione ambientale cresciuto nelle nostre città. E’ lo sviluppo delle fonti rinnovabili, la riduzione delle emissioni dei gas nocivi. Le migliaia di aree protette che tutelano la qualità della nostra vita.

E’ la sicurezza alimentare, garantita, per la nostra salute, dalla tracciabilità degli alimenti consumati in Europa.

Sono i giocattoli sicuri per i nostri bambini.

Sono le migliaia di brevetti tutelati a livello europeo.

Sono i trattati commerciali che regolano e garantiscono i rapporti con altri Paesi.

E’ la maggior sicurezza offerta dalla prospettiva di una politica di difesa comune, rilanciata in questo periodo.

E’ la tutela del nostro modello sociale all’interno.

E’ la Carta di Nizza dei diritti fondamentali dei cittadini dell’Unione.

Capovolgendo l’espressione attribuita a Massimo d’Azeglio verrebbe da dire: “Fatti gli europei è ora necessario fare l’Europa”.

Sono le persone, infatti, particolarmente i giovani, che già vivono l’Europa, ad essere la garanzia della irreversibilità della sua integrazione. Verso di essi vanno diretti l’attenzione e l’impegno dell’Unione.

Signori Presidenti,

Onorevoli parlamentari,

i nostri valori di libertà individuale e collettiva, di tolleranza verso le altrui scelte, di apertura alle correnti di pensiero provenienti da altri contesti – senza abdicare al rispetto delle leggi e delle tradizioni locali – costituiscono i segni distintivi della civiltà europea. Essi – pur con ritardi e lacune – ne hanno consentito la diffusione e l’affermazione ben al di là dei nostri confini, contribuendo a disegnare un assetto nel quale il concetto di solidarietà, di reciproco sostegno fra i diversi livelli nei quali si articolano le nostre società, l’armonia fra il pubblico e il privato, nel tentativo di ridurre le grandi piaghe sociali, sono caratteristiche forti e distintive dell’essere Europa.

La soluzione alla crisi sui debiti sovrani e a quella sul rallentamento dell’economia non può essere la compressione dei diritti sociali nei Paesi membri. Tanto meno l’occasione di grossolane definizioni di Nord e Sud d’Europa.

Questa è l’anima della nostra Europa, questa è la nostra identità.

Se vogliamo un’Unione Europea più forte è da qui che dobbiamo ripartire.

Ogni qual volta abbiamo – singolarmente o collettivamente – dimenticato questa spinta ideale, abbiamo – forse inconsapevolmente – contribuito a trasformare un grande progetto politico in un programma tecnico-burocratico nel quale i cittadini europei stentano, talvolta, a riconoscersi.

La congiuntura economico-finanziaria ha lacerato il tessuto sociale dei nostri Paesi, mentre, alle nostre porte, instabilità diffusa e fenomeni di portata epocale – quali le migrazioni – hanno messo in crisi la capacità dell’Europa di rispondere alle aspettative dei suoi cittadini.

Le prove alle quali l’Unione Europea è chiamata a tenere testa – oltre a quella finanziaria e a quella migratoria, quelle ai confini orientale e mediterraneo dell’Unione e l’offensiva terroristica – pongono con forza l’esigenza di rilanciare la sfida per una riforma dei Trattati; ineludibile, come ha osservato il rapporto del Comitato dei saggi presentato nei giorni scorsi alla Presidenza della Camera.

Le ambizioni del Trattato di Lisbona, oggi vigente, appaiono inadeguate rispetto alla natura e all’ampiezza delle crisi e anche rispetto all’obiettivo di giungere a una sempre più stretta integrazione continentale.

Signori Presidenti,

Onorevoli Senatori,

Onorevoli Deputati,

costruire il futuro richiede all’Italia e all’Europa ogni possibile risorsa, una straordinaria unità d’intenti e una solida fiducia nei valori fondanti del processo di integrazione.

Non impossibili ritorni a un passato che non c’è più, non muri che scarichino i problemi sugli altri senza risolverli, bensì solidarietà fra Paesi, fra generazioni, fra cittadini che condividono una stessa civiltà.

Quando l’Italia, di nuovo libera e democratica, muoveva i suoi primi passi nella Repubblica, De Gasperi ebbe a dire: “Per resistere è necessario ricorrere alle energie ricostruttive ed unitarie di tutta l’Europa. Contro la marcia delle forze istintive e irrazionali non c’è che l’appello alla nostra civiltà comune: alla solidarietà della ragione e del sentimento della libertà e della giustizia”.

Facciamo più che mai nostre queste parole.

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