Continua il sodalizio professionale fra “l’autore della cinematografia” Vittorio Storaro e il regista Rachid Benhadj. Dopo aver collaborato assieme nei film “Mirka” e “Parfums d’Alger” i due cineasti si sono incontrati alcuni mesi fa per girare il corto pubblicitario natalizio commissionato loro da alcune importanti profumerie
NordEst – Entrambi vivono nel Lazio: romano di nascita il primo, di adozione il secondo. Appartengono a due diverse generazioni: rispettivamente a quella della “ricostruzione” e a quella dei “baby boomers” accomunate però dall’impegno per le grandi battaglie sociali e le trasformazioni culturali degli anni Settanta. Sono dei “self made men” ovvero degli uomini che grazie alla propria tenacia, caparbietà e laboriosità sono riusciti ad affermarsi in ambienti competitivi quali sono il mondo del cinema e della televisione. Il loro modo di lavorare, di sperimentare, di creare stili è stato analizzato, studiato e talvolta anche imitato dai colleghi come si evince dagli articoli che molti media hanno dedicato loro e che di seguito ripropongo per ampli stralci. Desidero parlarvi di due persone apprezzate non solo in Italia ma soprattutto a livello internazionale: l’autore della cinematografia Vittorio Storaro e il regista Rachid Benhadj.
Il “mago della luce e dei suoi cromatismi” Vittorio Storaro
Il più conosciuto fra i due è sicuramente Vittorio Storaro. Nell’ambiente cinematografico basta pronunciare il suo soprannome, “mago della luce” e tutti capiscono di chi si parla. Appellativo appropriato; lo dimostrano i numerosi riconoscimenti che gli sono stati conferiti nel corso della sua carriera e fra i quali spiccano tre premi Oscar alla migliore cinematografia, vinti per i film “Apocalypse Now” di Francis Ford Coppola nel 1980, “Reds” di Warren Beatty nel 1982 e “L’ultimo Imperatore” di Bernardo Bertolucci nel 1988.
Vittorio Storaro nasce Roma nel 1940 da una famiglia di origini modeste. Frequenta, mantenendosi agli studi, dapprima l’Istituto Fotografico “Duca d’Aosta” e poi si diploma nel 1961 al prestigioso Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. A ventun anni esordisce, quale assistente operatore alla macchina, sul set del cortometraggio “Etruscologia” del regista Giancarlo Romitelli. Inizia così la sua avventura nel mondo del cinema. Da quel lontano 1961 ad oggi Vittorio Storaro ha curato la “fotografia” di oltre cento produzioni fra film, opere teatrali e televisive.
[ Poster of Vittorio Storaro’s films (Apocalypse Now – Reds – The Last Emperor) winners of 3 Oscars ]Vittorio Storaro si schermisce quando viene chiamato sui set “direttore della fotografia”. «Non mi sono mai sentito a mio agio con la definizione di “direttore della fotografia”. Sin dai primi lavori ho sempre sentito il bisogno di esprimere la mia individualità, sia pure in un’opera comune come è quella cinematografica, ho sempre cercato una definizione diversa. Chi fa questo mestiere è co-autore dell’opera cinematografica, responsabile delle sue ideazioni. Il film è un’opera a più mani realizzata da una serie di co-autori e diretta dall’autore principale, che è il regista. Sono andato all’origine della parola “foto-grafia”, letteralmente scrittura con la luce, che è poi, guarda caso, il titolo della collana di libri che ho pubblicato con Electa – spiega Vittorio Storaro e prosegue – chi fa “foto-grafia” scrive con la luce la storia del film, come il compositore la scrive con le note, come lo sceneggiatore o lo scrittore la scrive con le parole.
Il linguaggio della luce e quindi di tutti i suoi componenti, ha una sua potenzialità, può esprimere sentimenti, emozioni, esattamente come le note di uno spartito o le battute di una sceneggiatura. Noi siamo dei “visionari”, deriviamo da una serie di visioni, dalla storia della pittura. Ma se un pittore racconta una storia in un’unica immagine, e anche per la fotografia pura e semplice è così, la “cinemato-grafia”, ed è questa l’espressione in cui maggiormente mi riconosco, ha invece qualcosa di più: il movimento. Si esprime attraverso un racconto, con un inizio, uno svolgimento e una fine. Quindi “scrivere con la luce” è raccontare una storia cinematografica attraverso la luce e tutti i suoi componenti. La luce – puntualizza Vittorio Storaro – mi permette di esprimere, attraverso un vocabolario o un’articolazione quella che è la grammatica visiva. Il colore è un ulteriore approfondimento, è una singolarità della luce: a secondo della propria natura e della propria vibrazione sul piano scientifico, attraverso la reazione del corpo umano, diventa una vera e propria emozione».
[ The author of the cinematography Vittorio Storaro in New York on the set of a Woody Allen film ]A chi gli chiede perché ha scelto la luce anziché la parola per esprimersi e quali sono stati i suoi maestri, Vittorio Storaro risponde: «Io mi sento uno scrittore. C’è chi scrive con le note, chi con le parole e chi, come me, con la luce. Ho scelto questa professione probabilmente perché mio padre, che lavorava come proiezionista di pellicole, sognava di far parte di quelle immagini che proiettava. Lui ha spinto il suo sogno su di me ed io, in modo del tutto inconscio, ho iniziato questo cammino in seno alla parola magica “fotografia”. Prima mi sono appassionato al lato tecnologico della luce, poi ho scoperto che questa tecnologia era in secondo piano rispetto alla possibilità di raccontare. Nessuno mi aveva insegnato come dovevo utilizzare la conoscenza dei proiettori, della sensitometria, dell’elettronica, della fonica, dell’ottica. Ho tratto però grandi insegnamenti dalla filosofia greca, e poi dalla scuola pittorica di Michelangelo, Leonardo e Raffaello.
[ Francis Ford Coppola and Vittorio Storaro during the filming of a segment of the anthology “New York Stories” ]Vittorio Storaro è certamente una persona eclettica; si interessa anche di musica, di pittura, di scultura e di letteratura. «È fondamentale studiare tutte le espressioni d’arte che circondano la parola immagine – afferma Vittorio Storaro e aggiunge – in ogni secolo c’è stata una forma espressiva che ha guidato le altre. In epoca greca la scultura e la filosofia, in epoca rinascimentale la pittura, la musica nel Settecento e la letteratura nell’Ottocento. Questo è invece il secolo dell’immagine». L’immagine, la luce e i colori sono analizzati a fondo nella trilogia “Scrivere con la luce” di Vittorio Storaro edita da Electa in collaborazione con l’Accademia Internazionale per le Arti e le Scienze dell’Immagine dell’Aquila. «Ho pubblicato questa collana di libri (“La luce” – “I colori” – “Gli elementi”), prima che l’età mi porti a dimenticare quello che ho ideato per i miei film, soprattutto ciò che non ho mai avuto occasione di scrivere – puntualizza Vittorio Storaro e spiega – ho scritto i libri di mio pugno anche se, certamente, sono più uno scrittore di luce che uno scrittore di parole. Ma molte cose non avrei potuto farle spiegare da altri. Ogni volume presenta una parte didattica e una spettacolare, che descrive decade dopo decade la mia carriera».
L’artista, l’intellettuale e regista Rachid Benhadj
Il secondo personaggio che cito nell’incipit dell’articolo è il regista Rachid Benhadj. Il “trait d’union” che accomuna Vittorio Storaro con Rachid Benhadj è appunto il film “Mirka”. Infatti nel 2000 il regista algerino scelse Vittorio Storaro quale “co-autore” del film. Sodalizio professionale che si è rinnovato nel 2012 con il lungometraggio “Parfums d’Alger” e si è ulteriormente consolidato quest’anno con il corto pubblicitario natalizio girato per le profumerie Naïma.
Questo è il ritratto di Rachid Benhadj tratteggiato da alcune persone che per vari motivi lo hanno conosciuto. Pino Farinotti (critico cinematografico, giornalista e scrittore) così lo descrive: «Rachid Benhadj non è solo un apprezzato regista, è un artista tout court, conosce le arti figurative, dipinge. E frequenta con passione la letteratura, come emerge dai suoi film, tratti spesso da opere letterarie». Di lui la docente universitaria, Farah Polato scrive: «Classe 1949, nato ad Algeri, Rachid Benhadj si forma in Francia per poi rientrare nel paese natale dove consolida la propria esperienza professionale, per lo più in televisione; negli anni Novanta è costretto a lasciare l’Algeria per sfuggire alla guerra civile innescata dai fondamentalisti islamici. Nel 1995 si trasferisce in Italia, ottenendo la cittadinanza. Nel 1997 intraprende la lavorazione del film per la televisione “L’albero dei destini sospesi”, storia della relazione tra una donna italiana e un giovane migrante marocchino, prodotto dalla Film Albatros di Marco Bellocchio e dalla RAI. L’ancoraggio a un preciso contesto storico-sociale contraddistingue molti dei suoi film quali “Rose di sabbia” (1989) selezionato al festival di Cannes, “Touchia” (1993) selezionato alla mostra del cinema di Venezia, “Mirka” (2000), “Il pane nudo” (2005) tratto dall’omonimo romanzo autobiografico dello scrittore marocchino Mohamed Choukri, “Profumi d’Algeri” (2012), “La stella di Algeri” (2016) anch’esso tratto dall’omonimo romanzo di Aziz Chaouki vincitore nel 2005 del premio Flaiano e “Matares” (2019).
Ho telefonato a Rachid Benhadj alcune settimane fa in occasione del lancio dello spot televisivo natalizio girato assieme a Vittorio Storaro per “Naïma”, un gruppo di profumerie italiane diffuso in tutta la penisola con una capillare rete di circa 300 punti vendita. Una nuova e sorprendente campagna di comunicazione che racconta un’azienda fatta di persone, passione e competenza, portavoce di valori come fiducia, qualità ed esperienza, capace di distinguersi per il legame privilegiato che instaura con ogni cliente, coltivandolo nel tempo grazie all’esperienza e alla profonda capacità di ascolto del suo personale. Una storia così ambiziosa non poteva che essere narrata in modo altrettanto eccezionale attraverso lo sguardo di due maestri del cinema internazionale: Vittorio Storaro e Rachid Benhadj appunto.
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