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Ovunque ci troviamo, abbiamo un caricabatterie…

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di Annalisa Borghese

In casa probabilmente più d’uno. E poi uno nel cassetto della scrivania dell’ufficio o nell’armadietto della scuola o in qualunque altro posto lavoriamo; uno immancabilmente in borsa, e in valigia o nello zaino nel caso fossimo in viaggio. Senza contare che ci sono caribatterie senza fili che stanno anche in tasca. Insomma, in quanto a “ricarica” siamo diventati degli esperti.

Ma noi, chi o che cosa ci ricarica? Partendo dall’imprinting ricevuto che “l’ozio è il padre di tutti i vizi”, siamo convinti che per mantenere la carica sia buona cosa stare in attività. E quindi fare, fare il più possibile. D’altronde gli stimoli non mancano. E poi, se vogliamo, anche lavorare tutte queste ore al giorno non è così male ché almeno ci teniamo impegnati e non ci vengono brutti pensieri…

Già. Solo che così facendo le pile si scaricano. Non che fare sia inopportuno e anzi è vero che in certi frangenti mettersi all’opera aiuta. Ma dipende da quanto e come. Perché se è vero che fare e produrre rende euforici e l’adrenalina generata dallo stress è inebriante (e crea assuefazione), a maggior ragione è necessario tornare nel proprio ritmo e rallentare. Ce lo insegna instancabilmente la Natura che, guarda caso, dopo secoli di sfruttamento non è messa tanto bene.

Certo, il nostro fare – quello monetizzabile – genera benessere economico e nessuno vorrebbe rinunciarvi. Tuttavia se il benessere economico non produce lo stare bene, non crea equilibrio e pace interiore, si può davvero chiamare bene-essere?

Marcella Danon, ecopsicologa, sostiene la necessità di un cambio di ritmo e spiega come nel suo “Il potere del riposo. Ottenere di più lavorando meno”, Feltrinelli, 2017. Una tisana di fiori di arancio, luppolo e melissa può essere un buon abbinamento anti stress.

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