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Dalle Dolomiti all’Antartide: il trentino Nicola Bonat si racconta, in viaggio verso una nuova spedizione

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Il continente antartico evoca il candore del pack e della calotta polare, la cangiante piattaforma di ghiaccio, il gelido oceano, il pinguino imperatore, le otarie e i leoni marini, i muschi e licheni della stagione meno rigida. Sei mesi di luce e gli altri sei immersi nella notte perenne, temperatura media annua – 49° C e in gennaio, il mese più caldo, – 29° C.

Nicola Bonat al centro della foto, con i colleghi di spedizione in Antartide

 

di Liliana Cerqueni

NordEst – Nicola Bonat, trentino di Mezzano, 43 anni e padre da 6 mesi, non ha rinunciato neanche stavolta a raggiungere questa terra che ha imparato ad amare. E’ la quinta volta che lascia casa per esercitare la sua professione in condizioni proibitive, tra stazioni di ricerca scientifica, navi rompighiaccio, gatti delle nevi e la grande distesa bianca. Lo abbiamo sentito dalla Nuova Zelanda, dove si trova in stato di quarantena cautelativa prima di proseguire per la destinazione polare. Questo è il quinto anno di trasferta in Antartide.

Come hai cominciato e cosa ti ha spinto ad accettare questo impegno lavorativo?

In passato ho lavorato in officine di autoriparatori industriali e non, nel settore degli impianti di innevamento artificiale, in centrali ecotermiche e per una decina d’anni sugli impianti di risalita. Ed è proprio in questo ambiente che ho sentito parlare di Antartide e nuove opportunità professionali nel Polo Sud. Mi sono incuriosito e ho subito provato interesse per una nuova esperienza che si andava profilando. Dopo colloqui, domande, telefonate, sono arrivato al PNRA (Programma Nazionale di Ricerche in Antartide). Sono seguiti corsi di addestramento e sono partito per la mia prima campagna antartica, la XXXI spedizione in una base francese con collaborazione italiana per la traversata antartica con base interna.

Come è continuata negli anni questa esperienza professionale?

Al ritorno ho avviato un’attività di autoriparatore e successivamente sono ripartito come meccanico per la base italo-francese di Dome C Concordia, all’interno dell’Antartide, a 3230 m di quota. La passione per questo lavoro e questo ambiente tanto estremo quanto affascinante, mi hanno spinto a proseguire con una seconda e una terza spedizione, alla stazione M. Zucchelli di Baia Terra Nova, dove si sta costruendo il primo aeroporto su terra di tutta l’Antartide e la quarta campagna, la XXXVI spedizione, conscio che questa volta non sarà facile, nel pieno di una pandemia.

Parlaci del viaggio che hai intrapreso per arrivare a destinazione, con restrizioni e disposizioni legate a Covid-19.

Tra visti, certificazioni Covid, visa, prenotazioni, siamo riusciti a partire da Milano il 7 ottobre scorso e ci siamo incontrati all’aeroporto di Francoforte con altri colleghi provenienti da Roma. Abbiamo proseguito per Singapore e all’arrivo siamo stati accompagnati in un hotel per rimanervi tutto il giorno ed evitare ogni sorta di contatto e possibile contagio.

Al momento i voli intercontinentali sono stati ridotti a uno solo la settimana e potete immaginare la desolazione degli aeroporti. Siamo arrivati quindi in Nuova Zelanda con visti speciali, abbiamo affrontato i controlli doganali e gli accertamenti medici previsti per poi essere scortati dai militari in una struttura destinata alla quarantena. Il governo sta gestendo la situazione molto bene, siamo in albergo ma sotto la vigilanza di polizia e militari. Abbiamo camere singole e ad orari predefiniti possiamo uscire in zona a prendere un po’ d’aria. Aspettiamo di fare il secondo tampone e se andrà tutto bene, il 26 ottobre prenderemo un cargo americano, destinazione base di Mc Murdo; da là in poi è da pianificare con certezza.

In cosa consiste il tuo lavoro, in un ambiente estremo e specifico come quello? In che condizioni climatiche vivi e lavori, e quali sono le difficoltà più rilevanti che potrebbero trasformarsi anche in rischio?

Le condizioni lavorative cambiano da base a base, il rischio di congelamento è reale se non gestito dal buonsenso; aver cura della propria attrezzatura e della sua gestione è fondamentale e ci sono regole precise da rispettare per la sicurezza propria e della comunità, oltre che per l’ambiente antartico.

Lavorare sopra il plateau antartico non è semplice, spostarsi sopra il mare con un gatto delle nevi deve essere eseguito in presenza di una guida. Esperienza e addestramento sono indispensabili.

Cosa apprezzi dell’Antartide?

Questa terra ha un suo fascino: le mille tonalità che spaziano tra il bianco e il blu, i silenzi tanto profondi da poter sentire il proprio cuore, l’oceano color argento. C’è quel legame sottile che io chiamo ‘mal d’Antartide’, e se anche lasci con difficoltà la tua famiglia, il paese e la quotidianità calda e sicura, ti ritrovi a fremere per tornare in quei posti.

Cosa significa vivere lontani dalla quotidianità di casa tua, dalla famiglia, dagli amici di sempre, isolati dal resto del mondo?

Lì sei solo e allo stesso tempo vivi, lavori, mangi in stazioni a stretto contatto con decine di persone, spesso di altre nazionalità, che ti permettono di accostarti a culture diverse, diversi stili di vita e idee. Può diventare un’esperienza umana interessante.

C’è qualche episodio significativo legato ai tuoi soggiorni al Polo Sud, che ricordi e ti è rimasto impresso in modo particolare?

Parlare di situazioni e fatti particolari sarebbe impossibile: ogni giorno è una sorpresa, noi dipendiamo dal meteo, dalle macchine e dal caso. Buoni colleghi e fortuna aiutano decisamente.

Lasciamo Nicola Bonat al suo lungo viaggio verso il continente delle nevi perenni, gli iceberg e le architetture surreali, augurandogli che anche questa volta l’Antartide gli tenga compagnia con la sua inusuale e persistente fascinazione.

 

 

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