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Primiero piange l’architetto Willy Schweizer: l’ultimo saluto a Mezzano

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L’ultimo saluto nella chiesa di Mezzano. Willy era fratello del noto artista Riccardo, padre della docente Erica e del musicista Francesco. Il 16 febbraio Willy, avrebbe compiuto 90 anni. Vogliamo ricordarlo riproponendovi la sua storia

[ Maria Grazia Piazzetta e Willy Schweizer nel loro studio a Primiero (Trento) – © courtesy of Luca Chistè / www.lucachiste.it ]

 

A cura di GianAngelo Pistoia
con la collaborazione
di Alessandro Franceschini e Luca Chistè


 

NordEst – È stato inaugurato lo scorso 25 giugno a Mezzano il nuovo “Info Point”, l’ennesima struttura pubblica progettata a Primiero dallo studio architetti associati “Schweizer – Piazzetta”. Desidero dedicare questo articolo a questa coppia di professionisti – uniti sul lavoro e nella vita – che dal lontano 1963 hanno abbellito con le loro opere di edilizia pubblica e privata la Valle di Primiero e quella del Vanoi. Per predisporre l’articolo mi sono avvalso del contributo di due loro amici, rispettivamente di Alessandro Franceschini per i testi e di Luca Chistè per le foto.

“Osservando in un sol colpo d’occhio tutta la produzione artistica e architettonica dello studio Schweizer/Piazzetta non si può che rimanere colpiti dalla grande varietà di immagini che sono riusciti a realizzare e dalla grande coerenza stilistica del loro operare – chiosa l’architetto, filosofo e docente universitario trentino Alessandro Franceschini e spiega – Il lavoro di Maria Grazia Piazzetta e Willy Schweizer può essere quindi letto come un continuo tentativo, reiterato ogni giorno e in ogni occasione progettuale, di reinterpretare la tradizione architettonica rurale dentro la quale si sono trovati a operare attraverso la loro formazione intellettuale ed artistica colta e sprovincializzata.

Dallo studio delle opere e dalla conoscenza diretta con questi due architetti, appare evidente la presenza di un che di intimo che pervade le loro vite e il loro lavoro. Un’ulteriore conferma che la professione di architetto – quando è fatta con passione – non può essere altro che un tutt’uno con la vita. Con questo aspetto straordinario: nonostante la dimensione famigliare, l’opera di Maria Grazia Piazzetta e Willy Schweizer è stata tutt’altro che “casalinga”.

É stata, invece, un’opera colta, caratterizzata da un ampio respiro intellettuale, nient’affatto vernacolare. Nel lavoro di questi due professionisti, il continuo rimando alla lezione dei maestri, la capacità di essere Architettura con la “A” maiuscola, non è mai stata una maniera altèra di essere architetti. E forse una delle cifre del lavoro dello studio Schweizer/Piazzetta sta proprio all’interno di quest’apparente dicotomia: ovvero nella loro capacità di vivere in provincia senza essere provinciali; di operare tra le montagne senza essere montanari, di guardare al mondo rurale senza perdere la dimensione urbana, civile, culturale dell’architettura.

“Non metterti intenzionalmente a un livello inferiore di quello che hai ricevuto per nascita e per educazione – ammoniva Adolf Loos e precisava – anche quando vai in montagna, parla con i contadini nella tua lingua”. E con la “loro lingua”, Schweizer e Piazzetta hanno parlato all’ambiente alpino e agli uomini che lo abitano, generando un caleidoscopio tangibile di bellezza, di armonia, di contemporaneità, destinato a lasciare un segno importante dentro il paesaggio, bello e terribile, del Primiero”.

Opere architettoniche, a valenza sia pubblica che privata, sparse soprattutto nelle valli di Primiero e Vanoi. Le più significative sono state inserite in un esaustivo libro dal titolo “Willy Schweizer – Maria Grazia Piazzetta. Architettura e spazio alpino” pubblicato nel 2017 da GreenTrenDesign Factory di Rovereto. Il volume curato da Alessandro Franceschini contiene, fra l’altro, apporti divulgativi di Luciano Bolzoni, Danilo Balzan e Luca Chistè. Quest’ultimo ha coordinato anche la parte fotografica del catalogo.

[ Copertina del libro e opera di riferimento: case a schiera a San Martino – © Luca Chistè / www.lucachiste.it ]

La filosofia di Schweizer e Piazzetta

La filosofia di vita e professionale di Maria Grazia Piazzetta e Willy Schweizer, emerge con chiarezza in questa intervista rilasciata dagli stessi architetti ad Alessandro Franceschini, che vi proponiamo per rileggere la loro attività.

Architetto Schweizer, da dove arriva questa vocazione artistica che attraversa le generazioni della sua famiglia e che, per lei, è diventata l’urgenza di progettare, di costruire architettura?

WS: Deve essere stata una questione di “dna”, un meccanismo biologico. Provengo da una famiglia senza terra che ha vissuto in una società fondata su un’economia essenzialmente agricola. Qui a Primiero, il potere è sempre stato in mano ai contadini, che avevano la possibilità di sfamarsi grazie al lavoro nei campi. Per questo siamo sempre stati degli “emarginati”.

La mia famiglia non ha mai avuto proprietà da coltivare e quindi abbiamo dovuto ingegnarci. Mio nonno e il mio bisnonno erano dei muratori.

Gente che lavorava sodo, con pochi strumenti e con tanto sforzo fisico. Allora si riusciva a costruire un edificio con un’attrezzatura edile che poteva stare dentro uno sgabuzzino: una carriola, un paio di badili, qualche secchio. Il cemento veniva impastato a mano e poi portato in opera sulle spalle.

Mio nonno aveva anche un talento artistico: non di rado, su richiesta dei committenti, completava la sua fabbrica con un affresco sul muro. Alcuni sono sopravvissuti fino a oggi.

Può essere utile approfondire un aspetto: come questa tradizione artistica, con delle origini evidentemente popolari, sia ad un certo punto diventata colta e sistematica.

WS: Gli anni della mia formazione giovanile furono caratterizzati da uno studio condotto in maniera autodidatta, soprattutto orientato nei confronti della poesia e della musica, attraverso lo studio del pianoforte, passione che mi ha accompagnato tutta la vita e che mio figlio Francesco ha professionalmente realizzato. In quegli anni fu cruciale l’influenza di mio fratello Riccardo. Artista, nove anni più grande di me, mi diede in mano gli strumenti intellettuali per iniziare la mia emancipazione. Quindi crebbi nel contesto bucolico della Valle di Primiero, rapito però dalla forza dei versi di Salvatore Quasimodo e Giuseppe Ungaretti, dalla musica di Fryderyk Chopin e Ludwig van Beethoven e dalle opere architettoniche di Le Corbusier, di Frank Lloyd Wright e di Alvar Aalto.

[ Maestri e ispiratori di Willy Schweizer e Maria Grazia Piazzetta – © World Telegram & Sun / photo Al Ravenna / Library of Congress U.S.A. – Wikimedia Commons (CC0 1.0 Universal – Joop van Bilsen / Anefo) ]

Poi la svolta nella vita: l’istruzione e la scuola. In particolare la facoltà di architettura di Venezia…

WS: Mia madre è morta quando avevo solo 12 anni. Per proseguire la tradizione famigliare nell’edilizia m’iscrissi alla scuola di Trento per diventare perito edile. Ma la passione per l’architettura stava diventando molto forte.

Decisi quindi di andare a Venezia, dove mio fratello Riccardo aveva da poco concluso gli studi presso l’Accademia di Belle Arti. Purtroppo gli ordinamenti scolastici del tempo non permettevano a un diplomato presso un istituto tecnico di iscriversi al corso di laurea in architettura. Quindi dovetti ripiegare sulla Facoltà di Economia di Cà Foscari. Il contesto veneziano, tuttavia, mi permise di conseguire brillantemente il diploma presso il liceo artistico, dove mi presentai da privatista.

E così nulla poteva impedirmi d’iscrivermi ad architettura. Purtroppo mio padre venne a mancare nel frattempo e quindi dovetti iniziare a lavorare per potermi mantenere agli studi. Svolgevo piccoli incarichi come perito edile (attività di progettazione, direzione lavori…). Quel poco che mi serviva per pagarmi vitto e alloggio nella Serenissima: 30.000 lire al mese.

Architetto Piazzetta, leggendo la sua biografia, una cosa che sorprende molto è la sua formazione nella sua città natale, Venezia, che negli anni del Dopoguerra era un riferimento culturale per tutto il Paese …

MGP: Provengo da una famiglia veneziana semplice e dignitosa e mi sono formata in quella città. Dai miei genitori – Antonio, impiegato presso il Municipio di Venezia, grande intenditore di musica lirica e Silvia, maestra elementare con l’amore per la pittura – io e mio fratello Cesare (che diverrà giornalista e morirà nemmeno quarantenne stroncato da un virus tropicale contratto in un servizio da inviato speciale) abbiamo avuto amore, educazione e sicurezza. Ho frequentato il liceo classico “Foscarini”. Ero una studentessa brillante, amavo soprattutto l’arte e lo studio delle lettere classiche: uno studio ripreso seguendo i figli Francesco e Erica nel loro percorso liceale e poi Erica nella facoltà di Lettere Classiche, e coltivato per tutta la vita.

La Venezia di allora era molto diversa da quella di oggi. C’erano ancora i “veneziani”, una comunità coesa, solidale, schietta, genuina. Dopo lunghe giornate di studio, noi giovani ci incontravamo nella passeggiata in Piazza San Marco, il cosiddetto “liston” e nei pomeriggi domenicali in piccole feste “casalinghe”.

Ma altri punti d’incontro erano i concerti al Teatro La Fenice, con ingressi agevolati per noi studenti e la domenica mattina il cineforum del “Circolo Pasinetti”; ricordo film come “La Terra Trema” di Luchino Visconti e “La corrazzata Potëmkin” di Sergej Ėjzenštejn.

A guardarli oggi, posso dire che quello scorcio degli anni Cinquanta era un tempo impegnato, colto ed insieme spensierato. La guerra era alle spalle, c’era tanta voglia di vivere, di fare, di costruire. Di ricostruire.

[ Condominio “Tognola” a San Martino di Castrozza – © courtesy of Luca Chistè / www.lucachiste.it ]

Quindi, di ‘ricostruire’ facendo l’architetto?

MGP: Conseguito il diploma liceale, la strada sembrava destinata: fare una facoltà umanistica e svolgere la professione dell’insegnante, per la quale però non mi sentivo portata. Ecco che, casualmente, nell’estate della maturità, mi imbatto nel corso di laurea in architettura. Un corso di studi che scelsi per l’ampiezza culturale e le sfaccettature dei suoi contenuti e perché attratta da una professione allora intellettualmente elitaria. Da quel momento l’architettura, divenuta una irrinunciabile passione, percorre tutta la mia esistenza, coniugandosi agli altrettanto appassionanti ruoli famigliari di donna.

Il vostro primo lavoro importante assieme è stato quello della tesi di laurea. Che ricordo avete di quella prima fase della vostra vita assieme?

WS: Dopo il conseguimento della laurea si aprì un momento molto frenetico della nostra vita. Il 31 luglio del 1963 discutemmo la tesi di laurea con il relatore Luigi Piccinato, il 10 agosto un amico architetto, sacerdote salesiano, ci sposò nella chiesetta delle Canossiane di Sant’Alvise a Venezia e quindi ci trasferimmo a Mezzano, ampliando un’addizione edilizia alla vecchia casa di famiglia, che usavo come studio nei mesi estivi: una piccola abitazione che realizzava il nostro primo progetto insieme ed era una sintesi di suggestioni culturali (Le Corbusier, Gellner, Morassutti) nella concezione innovativa di spazi aperti e continui.

Subito dopo una scuola privata “S. Croce” di Mezzano – media e ginnasio – gestita allora da sacerdoti canadesi (oggi dai Salesiani ndr) ci assunse come insegnanti; contemporaneamente, dopo l’esame di stato, giunsero i primi incarichi. Il nostro studio professionale fu il primo studio di architettura nel Primiero. Successivamente, divenuto insufficiente, lo trasferimmo provvisoriamente a Fiera e infine dal 1976 nella sede attuale di Primiero in cui dal 1980 anche abitiamo.

[ Studio di Maria Grazia Piazzetta e Willy Schweizer a Primiero – © courtesy of Luca Chistè / www.lucachiste.it ]

Venezia e la sua facoltà di architettura erano, in quegli anni un vero e proprio laboratorio culturale. Che ricordo avete di quell’esperienza?

MGP: Venezia era in quegli anni un fulcro di cultura: ricordo che per noi studenti di architettura era frequente imbattersi in artisti come De Chirico o Saetti nei dintorni dell’Accademia o nelle vicine gallerie d’arte. L’Istituto Universitario di Architettura di Venezia di allora era al massimo della sua espressione.

Nella sede di San Trovaso, il direttore della scuola, Giuseppe Samonà, aveva radunato i migliori docenti italiani: Carlo Scarpa, Luigi Piccinato, Bruno Zevi, Franco Albini, Ignazio Gardella, Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Giovanni Astengo, Giancarlo De Carlo e molti altri. In tutto l’istituto eravamo poche centinaia di studenti e questo consentiva un rapporto con i docenti davvero intenso.

Tra tutti, sono stati particolarmente importanti per la nostra formazione Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Luigi Piccinato e Bruno Zevi. Del primo ricordo la grande lezione sul progetto di architettura, in tutte le sue tipologie edilizie. Del secondo l’amore per l’urbanistica, una disciplina che mi sarebbe piaciuto esercitare di più durante la professione. Di Zevi, travolgente e terrificante, ricordo la grande cultura, le lezioni “teatrali”, la profondità e la forza istrionica. Allora, il biennio era comune al corso di laurea in ingegneria: una formazione che ci ha consentito di essere autonomi nel nostro lavoro, eseguendo anche la progettazione strutturale delle nostre architetture e molti collaudi statici.

[ Auditorium intercomunale di Primiero – © courtesy of Luca Chistè / www.lucachiste.it ]

Piazzetta, può essere interessante approfondire brevemente un aspetto: ovvero l’esperienza di una donna, colta, sprovincializzata che sceglie di abitare in una remota valle alpina, culturalmente allora, molto arretrata. E di fare un mestiere in quei tempi considerato “da uomini”.

MGP: Conoscevo il Trentino e il Primiero, perché a casa mia la montagna era molto amata. Fin da adolescente, avevo trascorso con la mia famiglia più estati a Fiera di Primiero, che allora era un centro turistico di eccellenza. Ho delle immagini ben scolpite nella memoria: un centro storico molto ben conservato, parchi e giardini e una atmosfera da “Belle Epoque”. Nell’estate del 1958 successiva al primo anno di università, dove già ci eravamo conosciuti, Willy e io ci siamo ritrovati e in montagna ebbe inizio la nostra storia.

Com’era la Valle di Primiero nel Dopoguerra?

MGP: Negli anni Sessanta Mezzano era ancora un paese dalla struttura arcaica, ma dotato di una forte identità. Devo dire che mi trovai subito bene con le persone. Certamente ero molto diversa dalle donne di allora.

Sicuramente più emancipata, istruita. Lavoravo, e facevo un lavoro che era considerato da “maschi”. Tuttavia devo dire che c’è sempre stato molto rispetto nei miei confronti, anche se non appartenevo alla loro comunità dalla nascita. Ben presto le mie competenze divennero patrimonio della comunità, e fui coinvolta nelle commissioni edilizie comunali e dentro altri luoghi di decisione dove era utile la presenza di un architetto.

A questo contesto, fortunatamente conosciuto nella sua identità originaria, oggi andata in parte perduta, sono legata da un vincolo non solo fisico ma anche psicologico e di conseguenza da un rapporto di inevitabile coinvolgimento: vivere in una valle di montagna significa percepirne e assimilarne forme, dimensioni, colori, odori, trasformazioni quotidiane e stagionali. Ma al di là di queste sensazioni, progettare in una valle di montagna significa produrre opere che si pongono in un preciso tipo di rapporto con un paesaggio definito da due forti e impegnative componenti: natura e architettura preesistente.

[ Piscina comprensoriale di Primiero – © courtesy of Luca Chistè / www.lucachiste.it ]

Nei vostri progetti, oltre alla componente “colta” appare evidente un costante riferimento all’architettura spontanea di montagna.

WS: La nostra consuetudine con l’architettura spontanea ho comportato la conoscenza attraverso i segni (che forniscono i codici interpretativi dei luoghi) del tipo di atteggiamento psicologico che li hanno prodotti: questo “spirito” che accompagnava la gente di montagna nel suo quotidiano operare, e quindi anche nel costruire, era uno spirito concreto, pragmatico, lucido, che conosceva in modo certo, perché sperimentate nei secoli, le soluzioni formali e costruttive. Allo stesso tempo libero e fantasioso, poteva variare queste soluzioni – usando il minimo dei mezzi – secondo le proprie necessità. Necessità non solo strettamente funzionali, ma anche interiori, come il desiderio di lasciare una traccia della propria storia e della propria creatività per mezzo di segni necessari unicamente per trasferire nell’edificio la propria humanitas: il piacere, il gioco, il divertimento, al di là e al di fuori di teorizzazioni e concettualismi.

Questa matrice tradizionale, che ruolo ha avuto nella crescita della vostra poetica architettonica?

MGP: Nel tempo, parallelamente al graduale inserimento concreto e piscologico nell’ambiente, ho maturato culturalmente, nei confronti dell’architettura tradizionale, il passaggio dall’iniziale adesione prevalentemente emotiva alla lucida comprensione delle sue potenzialità evolutive. Fondamentali in tal senso per me due fattori: da una parte la frequentazione dalla metà degli anni Novanta, dei viaggi di studio e soprattutto degli eventi culturali del Circolo Trentino di Architettura Contemporanea, incentrati sugli apporti teorici di Vittorio Ugo e di Franco De Faveri e sull’appassionata attività di conoscenza e di aggiornamento del collega e amico Sergio Giovanazzi; dall’altra, la consuetudine quotidiana con personalità come Willy Schweizer e Riccardo Schweizer che mi hanno indotto a uno studio analitico pubblicato nel 2006 sulle loro opere, rivelatesi sorprendentemente simili nella stessa forte connotazione di appartenenza all’ambiente.

Queste esperienze mi hanno fatto comprendere e interpretare a mia volta il complesso “spirito del luogo”, avviando un processo di graduali ricadute sulla mia progettualità, che oggi via via individuo presenti nelle opere come proiezione di successive fasi di lettura e di elaborazione.

[ Centro Civico a Mezzano – © courtesy of Luca Chistè / www.lucachiste.it ]

Quali sono i caratteri dei luoghi che vi hanno particolarmente ispirato nello studio?

WS: Alcuni caratteri evidenti del contesto in cui abbiamo lavorato e che ci hanno interessato sono: l’unitarietà degli aggregati urbani, l’integrazione tra natura e architettura, l’articolazione organica dei volumi e la contrapposizione forte di pieni e vuoti, la gravità e la plasticità delle murature, l’evidenza volumetrica e costruttiva delle parti di legno e insieme la leggerezza di certe lavorazioni lignee, la varietà formale, cromatica e decorativa dei particolari. Si tratta di elementi che abbiamo cercato di volta in volta di reinventare nelle nostre costruzioni.
Eppure il rapporto con l’architettura tradizionale non è sempre così fecondo negli architetti contemporanei.

Vi siete fatti un’idea del motivo di questo difficile rapporto?

MGP: Nei confronti dell’architettura tradizionale la posizione dei progettisti nei territori montani possono teoricamente oscillare tra due estremi: troviamo da una parte quello che si usa definire “regionalismo acritico e mimetico” che – originandosi dal postmoderno, nella forma assunta oggi e largamente predominante – ripropone con una fittizia attualizzazione, spesso contaminandole tra loro, forme tradizionali di varia estrazione e con ciò «riduce la cultura popolare tradizionale a povero modello subcolto tardo-romantico», citando Roberto Leydi.

Questo etnomusicologo affermava questo a proposito di elaborazioni di “armonizzazione” operate sul conto polivocale alpino, che, privo di disciplina e di organizzazione come l’architettura spontanea, era espressione della stessa alterità culturale. Analoghe considerazioni possono essere fatte sui dialetti, forma linguistica in grado di convogliare passioni, di rappresentare contenuti vivi, dinamici, popolari, realtà concrete: i tentativi odierni di riassorbimento del dialetto – spesso contaminandolo con operazioni linguistiche arbitrarie – generalmente conducono non ad un genuino movimento realistico ma solo ad evasioni neoromantiche. Sono entrambi forme di neoregionalismi superficiali e decadentistici che cristallizzano la cultura autoctona in stile accademico.

La tendenza architettonica che si colloca all’estremo opposto comporta in termini teorici il superamento e l’ignoranza totale del passato e del luogo a favore di espressioni per dire così internazionali, nomadi, autonome, prive di radici (casi effettivamente rari, se non inesistenti, dove la questione si pone in termini di qualità architettonica).

[ Municipio e piazza Brolo a Mezzano (Trento) – © courtesy of Luca Chistè / www.lucachiste.it e in basso il nuovo Info point di Mezzano, inaugurato il 25 giugno 2022 ]


Un altro aspetto interessante è quello del rapporto con il sapere pragmatico dell’architettura di montagna, pensata e realizzata da non professionisti …

WS: La conoscenza del modo di operare dei “non architetti” ha determinato all’interno di un processo naturale – più che come proposito culturale – una ulteriore componente della nostra poetica progettuale, attuandosi in un modo di operare in cui viene rimossa qualsiasi intenzione di riferimento formale diretto alla tradizione, per essere totalmente liberi di “parlar spontaneo” (citando Bruno Zevi). In termini operativi nel recupero di questo spirito che ha prodotto un’architettura essenziale e rigorosa, ma carica di suggestione, noi facciamo rientrare, con l’impegno della razionalità e della fantasia, la nostra personale ricerca di una soluzione progettuale formata da una quantità minima di elementi, tali però da contenere e soddisfare tutte le funzioni: non solo quelle strettamente fisiche ma compresa possibilmente quella di carattere emozionale, estetico, legata cioè a valori contemplativi e poetici (non la bellezza ma il sublime).

Nelle radici quindi, l’origine della progettualità?

MGP: Willy “trova” nelle sue radici e quindi in sé stesso, l’origine della sua progettualità, perviene alla contemporaneità “trasportando immagini”, ossia percezioni individuali di volumi, materiali, forme, sedimentate nella memoria; in me il processo è di senso opposto: “immaginare la contemporaneità trasportata” in un ambiente che mi coinvolge ma non mi appartiene.

Questa apparente dicotomia di impostazione, spesso tra noi vivacemente dialettica, scontrandosi e componendosi in una sorta di interpretazione astratta e talora dissonante del passato, genera una poetica che è la risultante di sintonie e differenze, però di una analoga sensibilità e di un obiettivo comune: progettare come continua invenzione, agendo con la passione e con il sentimento.


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