Pyke Koch e Cagnaccio di San Pietro in mostra al Mart
Fino al 31 agosto 2025 il Mart di Rovereto propone l’inedito confronto tra due dei massimi protagonisti della stagione del Realismo Magico, corrente artistica diffusa in Europa dall’inizio degli anni Venti: da un lato il neerlandese Pyke Koch e dall’altro il veneto Cagnaccio di San Pietro

di GianAngelo Pistoia
NordEst – Curata da Beatrice Avanzi, la mostra “Realismi Magici” nasce da una felice intuizione del presidente Vittorio Sgarbi, che ha spesso proposto confronti anche arditi tra artisti e periodi diversi. Allo stesso tempo, approfondisce l’indagine sul Realismo Magico e sulle vicende dell’arte del primo Novecento a cui la ricerca scientifica del Mart si è più volte dedicata.

La mostra, visitabile fino al 31 agosto 2025, presenta un inedito confronto tra due protagonisti del “Realismo Magico”, una corrente diffusa in tutta Europa dall’inizio degli anni Venti. La definizione Realismo Magico è utilizzata per la prima volta cent’anni fa nel 1925 dal critico tedesco Franz Roh per indicare uno stile che rappresenta la realtà in modo rigoroso e analitico e, al contempo, introduce elementi di incanto e mistero. Nel 1927, in Italia, è lo scrittore Massimo Bontempelli a sostenere le ragioni di un’arte fondata su «precisione di contorni, solidità di materia ben poggiata al suolo, e intorno come un’atmosfera di magia». Per il pubblico italiano la mostra ha il valore della scoperta. Il Mart presenta infatti, per la prima volta in Italia, l’opera del neerlandese Pyke Koch, attraverso 31 dipinti straordinari (che corrispondono a un quarto dell’intera produzione dell’artista) provenienti da alcuni tra i principali musei dei Paesi Bassi che con generosità hanno collaborato al progetto.

A Rovereto le opere di Koch dialogano con una settantina di pitture e disegni di Cagnaccio di San Pietro. In un percorso cronologico e tematico la mostra evidenzia i punti in comune tra i due, all’interno dei rispettivi percorsi, distinti e profondamente originali. Entrambi, infatti, diedero vita a un realismo rigoroso, di straordinaria abilità tecnica, ispirato alla lezione dei maestri del Quattrocento, in particolare di area nordica. Sia Koch che Cagnaccio prediligono la rappresentazione di persone e ambienti umili, ma descrivono i contesti sociali in modo diametralmente opposto. Le scene di vita sono accomunate da una visione limpida e incisiva che ha il potere di catturare lo sguardo e rivelare verità profonde e, a prima vista, nascoste. Eppure mentre Cagnaccio si identifica, empatizza, soffre con i più umili, Koch è ironico, meno accondiscendente e quasi sprezzante.

Il confronto, quindi, sottolinea le similitudini tra gli aspetti estetici di due artisti per alcuni versi lontanissimi: al di là delle ovvie differenze date dalla provenienza e dalla formazione in contesti geografici e sociali distanti, Koch e Cagnaccio, che mai si incontrano, sono quasi agli antipodi per le posizioni politiche e il carattere. Vicino al nazismo Koch, antifascista Cagnaccio. Se negli ultimi anni Venti lavorano a tematiche “sociali”, di genere, lo fanno partendo da premesse ideologiche lontane tra loro. Entrambi autodidatti, seppur attraverso lenti di diverso colore, propongono una simile visione, cruda e diretta.

Nelle loro opere la realtà è così reale da essere improbabile, a tratti persino inquietante. In questo senso incarnano perfettamente la poetica del Realismo Magico nell’ambito dello stesso clima internazionale. Se in Koch l’adesione allo stile fiammingo è più ovvio, Cagnaccio viene riconosciuto come l’italiano più vicino a quei maestri gotici o del rinascimento nordico, che studia con passione, e agli esponenti della “Neue Sachlichkeit”, la “Nuova Oggettività” tedesca. Se Cagnaccio è maggiormente aderente alla realtà, il lavoro di Koch risulta più onirico e straniante, influenzato dai mondi simbolici del circo, del cinema, della fotografia. Agli elementi spaesanti della sua pittura si è dedicata buona parte della critica sull’artista, il cui lavoro è stato più volte interpretato secondo matrici psicoanalitiche, oltre che politiche.

Approfondiscono questi aspetti i testi in catalogo della mostra “Realismi Magici” delle studiose Marieke Jooren e Susana Puente Matos. Il volume contiene inoltre un testo introduttivo di Vittorio Sgarbi e un intervento di Beatrice Avanzi. I saggi su Cagnaccio sono firmati da Dario Biagi e da Elisabetta Barisoni. Completano l’opera gli apparati sulle opere e le bibliografie a cura di Susana Puente Matos e Ilaria Cimonetti.
Chi erano Koch e Cagnaccio
Pieter Frans Christiaan “Pyke” Koch (1901-1991) è uno dei massimi interpreti del Realismo Magico nei Paesi Bassi. Nel suo Paese sono più utilizzati termini quali Neorealismo o Realismo moderno ma Koch preferiva parlare di Realismo Magico come rappresentazione di «ciò che è possibile ma non probabile», distinguendo la propria ricerca da quella del Surrealismo – che invece raffigura «l’impossibile» – e sottolineando l’affinità con la pittura italiana degli anni Venti. Cresciuto nella tradizione fiamminga e influenzato dalla “Neue Sachlichkeit” tedesca, Koch è un autodidatta che dipinge, in modo lento e meticoloso, immagini allo stesso tempo precise e ambigue, cristalline e inquietanti, spesso contraddistinte da un’asprezza caricaturale e un’amara ironia.

Dietro questo crudo iperrealismo si celano, talvolta, allusioni e simboli che riflettono il suo interesse per la psicoanalisi freudiana e rimandano a temi come la bisessualità e l’ermafroditismo, apparentemente in contraddizione con le sue inclinazioni politiche. Vicino alle tendenze di estrema destra, membro del partito nazionalsocialista nederlandese e simpatizzante del fascismo italiano, nel secondo dopoguerra l’artista è accusato di collaborazionismo ma viene presto riabilitato. A partire dagli anni Cinquanta, il suo lavoro presenta un simbolismo ancora più complesso, intriso di nostalgia per il periodo prebellico e fortemente critico nei confronti del mondo liberale.

Natalino Bentivoglio Scarpa (1897-1946) cresce a San Pietro in Volta, un piccolo borgo di pescatori sull’isola di Pellestrina, nella laguna di Venezia. A partire dagli anni Venti, adotta lo pseudonimo Cagnaccio di San Pietro, con un richiamo ai grandi maestri del passato e un tributo alle sue umili origini. Nei suoi dipinti giovanili, eseguiti su semplici cartoni o tavole di legno, si legge la sua ammirazione per l’ambiente popolare dei pescatori che abitano l’isola con le loro famiglie. L’artista si riconosce «nella semplicità, nell’amore, nella rude e certe volte crudele sincerità, nella purezza della preghiera di questi uomini». Cagnaccio è un autodidatta dal precoce talento e viene notato dal pittore Ettore Tito, suo mentore all’Accademia di Belle Arti di Venezia per breve tempo, poiché Cagnaccio mal sopporta gli studi e preferisce frequentare, invece, l’ambiente d’avanguardia di Ca’ Pesaro.

Qui espone, a partire dal 1923, opere di un realismo tagliente, dal disegno duro e analitico che isola oggetti e figure immergendoli in un’atmosfera rarefatta e straniante. Più nordico che mediterraneo, lo stile di Cagnaccio si distingue dalle poetiche di Novecento Italiano, allora prevalenti. La sua riluttanza a farsi inquadrare in gruppi e movimenti e il suo aperto antifascismo lo tengono ai margini della scena artistica. Il suo rifiuto della tessera del partito gli preclude la cattedra di disegno all’Accademia di Venezia. Dagli anni Trenta, la pittura di Cagnaccio predilige una dimensione più intima, in ritratti o scene famigliari dove si accentua il senso di sospensione e di silenzio che pervade anche i paesaggi veneziani e le nature morte, un genere in cui l’artista eccelle.

Quest’ultime si fanno sempre più raggelate e cristalline, fino ad arrivare alla limpida essenzialità di “Gioco di colori”, dove al posto dei fiori, degli ortaggi o del pescato vi è l’asettico vassoio con i farmaci assunti dall’artista durante la lunga degenza all’Ospedale del Mare del Lido di Venezia, dove è in cura per una grave malattia che lo porterà precocemente alla morte. In quel contesto nascono anche i ritratti dei piccoli pazienti e di chi li assiste – il medico, la suora infermiera – immersi in una luce fredda che non attenua la commossa partecipazione dello sguardo dell’artista.

L’accento mistico e spirituale della sua pittura, già emerso nelle opere che raffigurano le famiglie dei pescatori in preghiera o mentre vegliano i loro morti – come ne “I naufraghi” (1934) – si esprime ancor più chiaramente nei quadri di soggetto religioso, come le Madonne dai tratti taglienti, illuminate da luci crude e artificiali. I numerosi disegni in mostra testimoniano il metodo di lavoro dell’artista, il quale studiava il motivo con schizzi e cartoni preparatori per poi trasferire l’immagine sul supporto finale attraverso l’antica tecnica dello spolvero. Un processo molto diverso da quello che caratterizza, invece, la pittura di Koch, il quale ricercava la perfezione tecnica direttamente sulla tela, senza disegni preliminari.