Maria Helena Vieira da Silva in mostra a Venezia

Fino al 15 settembre 2025 è visitabile a Palazzo Venier dei Leoni un’ampia personale dedicata a una delle voci più originali dell’arte del XX secolo. Con una settantina di opere, provenienti da importanti musei internazionali, la mostra offre uno sguardo approfondito e inedito sull’evoluzione del linguaggio visivo dell’artista portoghese (1908-1992)

[ Maria Helena Vieira da Silva nel suo studio (1948) – © Willy Maywald / Galleria Jeanne Bucher Jaeger di Parigi ]

di GianAngelo Pistoia

NordEst – Fino al 15 settembre 2025, a Palazzo Venier dei Leoni di Venezia, la Collezione Peggy Guggenheim presenta “Maria Helena Vieira da Silva. Anatomia di uno spazio”, ampia personale dedicata a una delle voci più originali dell’arte del XX secolo. Mostra a cura di Flavia Frigeri, storica dell’arte e curatrice presso la National Portrait Gallery di Londra. Dopo Venezia, l’esposizione si sposterà al Museo Guggenheim di Bilbao, dal 17 ottobre 2025 al 22 febbraio 2026.

[ Allestimento della mostra – © Matteo De Fina / Peggy Guggenheim Collection ]

Attraverso una selezione di circa settanta opere chiave, provenienti da prestigiose realtà museali internazionali – tra cui il Centre Georges Pompidou di Parigi, il Guggenheim Museum di New York, il Museum of Modern Art di New York, la Tate Modern di Londra, nonché importanti gallerie quali la Jeanne Bucher Jaeger di Parigi e istituzioni culturali come il Comité Arpad Szenes/Vieira da Silva di Parigi e la Fundação Arpad Szenes/Vieira da Silva di Lisbona – la mostra offre uno sguardo approfondito e del tutto inedito sull’evoluzione del linguaggio visivo di Maria Helena Vieira da Silva (Lisbona, 1908 – Parigi, 1992).

[ Allestimento della mostra – © Matteo De Fina / Peggy Guggenheim Collection ]

Mettendo in luce il forte rapporto tra astrazione e figurazione, l’esposizione ripercorre i momenti più significativi della carriera di Vieira da Silva, dagli anni Trenta alla fine degli anni Ottanta, e pone l’accento sul suo interesse per gli spazi architettonici, in cui il confine tra paesaggi urbani reali e immaginari si dissolve, andando ben al di là dei riferimenti formali alla cultura visiva portoghese e ai movimenti d’avanguardia come il Cubismo e il Futurismo. Ciò che di nuovo emerge dall’esposizione è il riconsiderare il suo lavoro come indipendente dal movimento Informale, a cui in passato è stato spesso accostato, e riconoscere invece come fondamentali sia la sua esperienza a Parigi, dove si trasferisce fin da giovane per motivi di studio, sia il periodo dell’esilio a Rio de Janeiro, dove si rifugia con il marito Arpad Szenes, anch’egli artista, durante la seconda guerra mondiale e dove crea una fitta rete di contatti.

[ Allestimento della mostra – © Matteo De Fina / Peggy Guggenheim Collection ]

Vieira da Silva è inoltre storicamente legata all’eredità di Peggy Guggenheim e di Solomon R. Guggenheim. Non solo Vieira da Silva venne inclusa tra le trentuno artiste protagoniste della mostra “Exhibition by 31 Women” organizzata da Peggy Guggenheim nella galleria-museo newyorkese Art of This Century nel 1943, ma Hilla Rebay, prima direttrice del Museum of Non-Objective Painting, futuro Solomon R. Guggenheim Museum di New York, è considerata una delle sue prime sostenitrici, avendo acquistato nel 1937 “Composition” (1936), tutt’oggi nella collezione del museo americano.

[ “Composition” (1936) di Maria Helena Vieira da Silva – © Maria Elena Vieira da Silva by SIAE 2025 ]

Nata a Lisbona e formatasi tra Parigi e Lisbona, Vieira da Silva trasforma l’idea di spazio in una delle tematiche centrali della sua opera, coniugando tradizione e modernità. Le sue composizioni, caratterizzate da strutture labirintiche, ritmi cromatici e prospettive frammentate, catturano l’essenza di un mondo in perenne trasformazione. Opere come “La camera piastrellata” (“La Chambre à carreaux”, 1935) o “Figura di balletto” (“Figure de ballet”, 1948) riflettono il suo interesse per l’architettura e il movimento, dove la distinzione tra figura e sfondo si dissolve, lasciando emergere una visione profondamente personale dello spazio. Vieira da Silva ha sempre vissuto l’arte come un’estensione del suo essere. Come sottolinea la curatrice nel saggio del catalogo, l’artista era “una creatura dello studio”: l’atelier era un luogo che non solo rappresentava il suo spazio di lavoro ma che diventava spesso soggetto delle sue opere. Influenzata dai suoi studi di scultura e anatomia, nonché dai grandi maestri del passato come Paul Cézanne e dai movimenti d’avanguardia del Novecento, Vieira da Silva sviluppa un linguaggio pittorico unico, in cui la fisicità dello spazio si intreccia con le dinamiche della memoria e del tempo.

[ Allestimento della mostra – © Matteo De Fina / Peggy Guggenheim Collection ]

Il percorso espositivo si apre con una sezione dedicata al legame tra l’artista e il marito Arpad Szenes, raccontato attraverso una serie di ritratti reciproci che introducono il pubblico alla loro relazione artistica e personale, profondamente simbiotica. Si prosegue poi con un approfondimento sul tema dello studio-atelier, luogo non solo di lavoro ma anche di riflessione sullo spazio architettonico, come testimoniato dai dipinti degli anni Trenta esposti in mostra, in cui la struttura scheletrica degli ambienti assume una dimensione quasi anatomica. Esempio emblematico di questo periodo è proprio “Composizione” (“Composition”, 1936), proveniente dal Guggenheim Museum di New York. Segue una serie di opere dedicate alle figure dei danzatori e dei giocatori di scacchi, quali “Danza” (“Danse”, 1938), appartenente al Museum of Modern Art di New York, e “Scacchiera rossa o I giocatori di scacchi” (“Échiquier rouge ou Joueurs d’échecs”, 1946), in cui il gioco diventa metafora dell’esistenza, fatta di azione e reazione. Un momento particolarmente intenso è rappresentato dalla sezione dedicata alla guerra, testimonianza del difficile periodo vissuto in esilio in Brasile durante il secondo conflitto mondiale, durante il quale Vieira da Silva elabora opere intrise di tensione e dolore, istantanee della tragedia umana di quegli anni. Significativi di questo periodo sono lavori come “Il disastro” (“Le Désastre”, 1942), proveniente dal Centre Pompidou di Parigi, “Sul tema del Disastro” (“Sur le thème du Désastre”, 1946) dal Musée d’Art Moderne de Paris, e “Gli annegati” (“Les Noyés”, 1938).

[ “Figure de ballet” (1948) di Maria Helena Vieira da Silva – © Maria Elena Vieira da Silva by SIAE 2025 ]

Il ritorno a Parigi, nel 1947, segna una svolta stilistica, che si manifesta nella ricerca di un linguaggio astratto sempre più definito e intriso di forme labirintiche. Da qui, lo sguardo dell’artista si apre successivamente al paesaggio urbano, reale e immaginato, in cui l’atmosfera dei luoghi diventa più importante della loro rappresentazione fedele, evidente in dipinti come “Parigi, la notte” (“Paris, la nuit”, 1951) o“Festa veneziana” (“Fête vénitienne”, 1949). Seguono lavori in cui l’architettura pubblica emerge come un tema ricorrente, opere che raffigurano cantieri, stazioni ferroviarie e chiese, in un equilibrio tra costruzione e infinito. La riflessione sull’organizzazione dello spazio continua, con lavori in cui interni ed esterni si fondono e si trasformano continuamente, come “Interno nero” (“Intérieur nègre”, 1950) o “L’Arena” (“L’Arène”, 1950).

[ Allestimento della mostra – © Matteo De Fina / Peggy Guggenheim Collection ]

In chiusura si trovano i dipinti degli anni Sessanta, caratterizzati da una palette cromatica sempre più scura, mentre l’ultima sala è dedicata alle “Composizioni bianche”, opere di diverse fasi della carriera di Vieira da Silva, che mettono in evidenza il ruolo speciale che il colore bianco ha avuto nella sua ricerca artistica. La mostra “Maria Helena Vieira da Silva. Anatomia di uno spazio” è accompagnata da un ricco catalogo illustrato, edito da Marsilio Arte, con testi della curatrice Flavia Frigeri, dell’artista Giulia Andreani, di Lauren Elkin, scrittrice e saggista, e di Jennifer Sliwka, storica dell’arte.


Palazzo Venier dei Leoni
La costruzione di Palazzo Venier dei Leoni viene commissionata dalla famiglia Venier nel 1749 all’architetto Lorenzo Boschetti, il cui unico altro edificio a Venezia è la chiesa di San Barnaba. Gli eventi storici che coinvolsero sia la famiglia sia la città fecero sì che il palazzo rimanesse incompiuto. Solo uno dei cinque piani previsti venne costruito. La facciata classica avrebbe fatto da contrappeso a Palazzo Corner, sul lato opposto del Canal Grande, con triplici arcate che a partire dal pian terreno avrebbero strutturato i due piani nobili superiori. Il progetto originario è documentato da due incisioni di Giorgio Fossati e un modello settecentesco in legno dell’architetto che ne seguì la costruzione, Domenico Rizzi, entrambi conservati presso il Museo Correr di Venezia. Sebbene si narri che nel giardino venisse tenuto un leone, è probabile che il nome dell’edificio derivi dalle teste di leone in pietra d’Istria che decorano la facciata al livello dell’acqua. La famiglia Venier affermava di discendere dalla “gens Aurelia” della Roma classica (cui appartennero gli imperatori Valeriano e Gallieno). Era una delle famiglie più antiche di Venezia ed annoverava tra i suoi membri diciotto Procuratori di San Marco e tre Dogi, tra cui Sebastiani Venier, comandante della flotta veneziana sotto Giovanni d’Austria nella famosa battaglia di Lepanto (1571), divenuto poi Doge (1577–78).

[ Palazzo Venier dei Leoni – © Matteo De Fina / Peggy Guggenheim Collection ]

Alla fine dell’Ottocento il palazzo e il giardino retrostante diventano proprietà della famiglia Levi. Solo nei decenni seguenti la costruzione abbandonata inizia a prendere forma. Negli anni dieci del Novecento e fino al 1924 la proprietà è affittata alla marchesa Luisa Casati Amman, ricca ereditiera, musa e modella di numerosi artisti, da Boldini a Troubetzkoy, a Man Ray e Augustus John. Nel 1924 l’imprenditore e collezionista d’arte ungherese, il barone Marzcell de Nemes, acquista la proprietà con l’intenzione di eseguire dei lavori, che purtroppo non saranno realizzati. Nel 1936 la viscontessa Doris Castlerosse acquista il sito, a patto che le autorità competenti le diano i permessi per restaurarlo, ed è grazie a lei che il corpo di fabbricati retrostanti la facciata originaria, prendono la forma attuale.

[ Peggy Guggenheim a Palazzo Venier dei Leoni – © Ray Wilson / Peggy Guggenheim Collection ]

Nel luglio 1949 il palazzo e il giardino sono acquistati da Peggy Guggenheim, che vi dimorerà per i successivi trent’anni. Nello stesso anno la collezionista organizza nel giardino una mostra di scultura contemporanea. Nel 1951, conclusi i lavori di ammodernamento e l’allestimento della sua collezione, Guggenheim decide di aprire le porte del palazzo al pubblico, gratuitamente e per tre pomeriggi alla settimana, da Pasqua a novembre, una tradizione che porterà avanti sino alla morte, avvenuta nel 1979. La necessità di ampliare lo spazio espositivo la porta, nel 1951, a commissionare un’estensione del palazzo allo studio BBPR, che tuttavia non porterà a compimento, preferendo far costruire un edificio più tradizionale a un solo piano, la cosiddetta “barchessa”, addossata al confine del giardino. Nel 1980 apre la Collezione Peggy Guggenheim sotto la gestione della Fondazione Solomon R. Guggenheim, a cui Peggy Guggenheim aveva donato il palazzo e la collezione. La facciata lunga e bassa, in pietra d’Istria, di Palazzo Venier dei Leoni, le cui linee sono ammorbidite dagli alberi del giardino, forma una piacevole cesura nella marcia solenne dei palazzi che si affacciano sul Canal Grande dall’Accademia alla Basilica della Salute.