L’architetto Renzo Piano parla del “mestiere di costruire”

Per Renzo Piano «l’architettura, è un’arte che mescola le cose: la storia e la geografia, l’antropologia e l’ambiente, la scienza e la società. L’arte del costruire, non risponde mai solo a bisogni, ma anche ai sogni, all’immaginario. È una tecnica per generare un’emozione, e lo fa con un linguaggio suo specifico, fatto di spazio, di proporzioni, di luce, di materia»

[ Renzo Piano nel suo studio – © Benoit Tessier / Reuters ]

di GianAngelo Pistoia

NordEst – «Credo che Trento sia conosciuta nel mondo e in Europa per il Concilio del 1500, ma in futuro spero lo sarà anche per il MUSE; un museo delle scienze di nuova concezione che coniuga natura, scienza e tecnologia. Il Museo forse diventerà una delle icone di Trento per la sua qualità progettuale e per il contesto in cui si trova – ha affermato l’architetto Renzo Piano nel 2013 in occasione dell’inaugurazione ufficiale del MUSE ed ha puntualizzato – ma anche perché ci ricorda un’epoca di grandi trasformazioni urbane. Una fabbrica importante, la Michelin, che se ne va e un’area dismessa che da problema è diventata un’opportunità: ecco la sfida che ho dovuto affrontare, su incarico di committenti pubblici e privati, progettando non solo il MUSE ma un nuovo quartiere residenziale esteso su un’area di undici ettari da palazzo delle Albere a Via Monte Baldo e dalla linea ferroviaria fino alla sponda sinistra dell’Adige.

[ Il MUSE a Trento – © Hufton Crow View / Alamy Live News ]

Obiettivo dell’intervento è restituire alla città di Trento il suo corso d’acqua, riqualificando l’area tra il centro storico e il fiume. Quando si porta a compimento un progetto – ha ammesso Renzo Piano – è un evento emotivo importante per un architetto, da quel momento in poi il progetto non è più tuo. Abbiamo lavorato dieci anni a Trento, e questi dieci anni sono stati importanti: qui c’è coesione, c’è entusiasmo. Siamo riusciti a costruire il Museo delle Scienze e a riqualificare le aree circostanti nei tempi previsti e rispettando il budget, quasi un miracolo. Questa però non è la fine del progetto: quest’anno vi sarà la consegna ufficiale degli spazi edificati alla città, affinché vengano riempiti di contenuti. La vera sfida per Trento inizia ora».

Chi è Renzo Piano
Renzo Piano la sua sfida personale con il mondo l’aveva invece iniziata negli anni Sessanta. Nato nel 1937 a Genova in una famiglia di imprenditori edili, si laurea nel 1964 al Politecnico di Milano. Diviene quindi allievo di Marco Zanuso. A Milano frequenta anche lo Studio di Franco Albini. Renzo Piano tra il 1965 e il 1970 alterna i suoi primi lavori sperimentali in Italia a viaggi di studio negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Risale al 1969 il suo primo progetto con valenza internazionale: realizza il Padiglione per l’industria italiana all’Esposizione Universale del 1970 a Osaka in Giappone. Frequenta in quegli anni versatili architetti quali Jean Prouvé e Richard Rogers. Con quest’ultimo fonda a Londra lo “Studio Piano & Rogers” che nel 1971, a sorpresa, vince il concorso internazionale per la realizzazione del Centre Georges Pompidou a Parigi.

[ Centre Georges Pompidou a Parigi – © Michel Chéron ]


Edificio considerato l’archetipo dell’architettura high-tech mondiale e oggi uno dei musei più visitati della città.(ndr: per improcrastinabili lavori di restauro conservativo l’iconico edificio rimarrà chiuso presumibilmente dal settembre 2025 fino al 2030). Parigi affascina Renzo Piano, vi si trasferisce con la famiglia, e dopo la rottura professionale con Richard Rogers, inizia a collaborare con l’ingegnere francese Peter Rice, creando l’“Atelier Piano & Rice” attivo dal 1977 al 1980. Ma l’anno di svolta per Renzo Piano è il 1981. Fonda infatti il “Renzo Piano Building Workshop” (R.P.B.W.), studio multidisciplinare di architettura e ingegneria con sedi oltre che a Parigi anche a Genova.

[ Skyline di Londra con lo Shard London Bridge – © Pisaphotography / Shutterstock ]

Con uno staff di circa centocinquanta collaboratori si aggiudica innumerevoli “concorsi di idee” e realizza progetti in tutto il mondo, fra cui spiccano solo per citarne alcuni, la Menil Collection a Houston, il museo della Fondazione Beyeler a Basilea, il Centro Culturale Jean-Marie Tjibaou in Nuova Caledonia, la ricostruzione della Potsdamer Platz a Berlino, l’Auditorium Parco della Musica a Roma, il Nasher Sculpture Centre a Dallas, l’ampliamento dell’High Museum of Art ad Atlanta e della Morgan Library a New York, la California Academy of Sciences a San Francisco, la sede del New York Times a New York, lo Shard London Bridge a Londra, la pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli a Torino, la riqualificazione del sito di Ronchamp, l’ampliamento dell’Art Institute of Chicago e dell’Isabella Stewart Gardner Museum a Boston, l’Academy Museum of Motion Pictures a Los Angeles, il CERN Science Gateway Building a Ginevra e il Museo d’Arte Moderna a Istanbul. Il “R.P.B.W.” collabora anche con l’UNESCO per il risanamento del centro storico di Genova, per il restauro degli antichi arsenali “La Canea” a Creta e del fossato dell’antica città di Rodi in Grecia. In Giappone il “Renzo Piano Building Workshop” realizza, fra l’altro, il Terminal dell’Aeroporto Internazionale di Kansai a Osaka, il ponte di Ushibuka a Kumamoto e la Maison Hermès a Tokyo.

[ Academy Museum a Los Angeles – © Academy Museum Foundation / Joshua White / JW Pictures ]

Opere di Renzo Piano si trovano quindi in tutti i continenti ed altrettanto numerosi sono i riconoscimenti e i premi che ha ricevuto per la sua instancabile attività di architetto. I più prestigiosi sono: la “Royal Gold Medal” per l’architettura al RIBA di Londra nel 1989, il “Praemium Imperiale” a Tokyo nel 1995, il “Pritzker Architecture Prize” a Washington nel 1998 e la “Gold Medal dell’American Institute of Architect” nel 2008. Gli sono state conferite inoltre diverse “lauree honoris causa” da università europee e americane ed è stato anche nominato “Goodwill Ambassador” dell’UNESCO.

[ Santuario di San Pio da Pietrelcina a San Giovanni Rotondo – © i Guzzini ]

Renzo Piano si racconta
In occasione della cerimonia di consegna del “Pritzker Architecture Prize”, unanimemente considerato il “Nobel dell’Architettura”, Renzo Piano ha pronunciato alla Casa Bianca a Washington il 17 giugno 1998 un discorso da cui traspare la sua concezione dell’architettura e con un titolo eloquente: “Elogio della costruzione”. Credo sia interessante e formativo riproporlo per ampli stralci: «Signor Presidente, signora Clinton, signore e signora Pritzker, è naturalmente per me un grande onore ricevere il Premio Pritzker 1998. E voglio innanzitutto ringraziare i membri della giuria.

[ President and Mrs. Clinton, Cindy and Jay Pritzker, and Mrs. Piano and Renzo Piano – © Rex Stucky ]

Aprendo le porte del tempio a uno come me, che è cresciuto standone sempre a una certa distanza, si sono presi una bella responsabilità. Io, naturalmente sono felice, orgoglioso e grato di essere nominato architetto dell’anno, qualunque cosa ciò voglia dire. É una cosa un po’ buffa: ricorda la top dell’anno, il meglio della stagione, il record del mese. Non è che anche l’architetto sia a scadenza, come i medicinali: finito l’anno, finito l’architetto? Ma che cosa è esattamente un architetto? Che cosa è l’architettura? Sono trent’anni che faccio questo mestiere, e solo ora comincio a capire che cosa è. L’architettura, intanto, è un servizio, nel senso più letterale del termine. É un’arte che produce cose che servono. Ma è anche un’arte socialmente pericolosa, perché è un’arte imposta. Un brutto libro si può non leggere; una brutta musica si può non ascoltare; ma il brutto condominio che abbiamo di fronte a casa lo vediamo per forza. L’architettura impone un’immersione totale nella bruttezza, non dà scelta all’utente. E questa è una responsabilità grave, anche nei confronti delle generazioni future. E l’architettura è un mestiere antico, forse il più antico della terra; o il secondo se preferite: è un po’ come la caccia, la pesca, la coltivazione dei campi, l’esplorazione dei mari. Sono le attività originarie dell’uomo, da cui discendono tutte le altre. Subito dopo la ricerca del cibo, viene la ricerca di un riparo; a un certo punto, l’uomo non si accontenta più dei rifugi offerti dalla natura e diventa architetto.

[ Renzo Piano nel suo studio e il “Pritzker Architecture Prize” – © Renzo Piano Facebook ]

L’architettura, infine, è un’arte che mescola le cose: la storia e la geografia, l’antropologia e l’ambiente, la scienza e la società. E inevitabilmente è lo specchio di tutto ciò. Ma forse posso spiegarmi meglio con un’immagine. L’architettura è come un iceberg. Non nel senso del Titanic, che se lo incontri ti tira a fondo, ma nel senso che ne vediamo solo una piccola parte: il resto è sommerso e nascosto. Nei sette ottavi dell’iceberg che stanno sott’acqua troviamo le forze che spingono l’architettura verso l’alto, che consentono alla punta di emergere: la società, la scienza e l’arte. L’architettura è società, perché non esiste senza la gente, senza le sue speranze, le sue aspettative, le sue passioni. É importante ascoltare la gente. Ed è difficile, soprattutto per un architetto. Perché c’è sempre la tentazione di imporre il proprio progetto, il proprio modo di pensare, o peggio, il proprio stile. Credo invece sia necessario avere un atteggiamento leggero. Leggero, ma senza rinunciare a quell’ostinazione che consente di testimoniare le proprie idee e al tempo stesso di essere permeabili, di capire le idee altrui.

[ L’architetto Renzo Piano – © Sergio Oliveiro / Imagoeconomica ]

Non sono un boy scout e il mio richiamo allo spirito di servizio non vuole essere moralistico. Molto semplicemente, è un richiamo alla dignità del nostro mestiere. Senza questa dignità rischiamo di perderci nel labirinto degli stili e delle mode. Vivere l’architettura come servizio è certamente un condizionamento, un vincolo alla libertà creativa: ma chi ha mai detto che la creatività deve essere libera da ogni vincolo? Vorrei dire di più: interpretare la società e i suoi bisogni è la ricchezza dell’architettura. Firenze è bella perché è l’immagine dell’Italia del Rinascimento, dei suoi artigiani, dei suoi commercianti, dei suoi mecenati. Nelle sue vie, nelle sue piazze e nei suoi palazzi si riflette la visione della società di Lorenzo de’ Medici. L’architettura è scienza. Per essere scienziato, l’architetto deve essere un esploratore, e deve avere il gusto per l’avventura. Deve affrontare la realtà, con curiosità e coraggio, per conoscerla e per cambiarla. Deve essere “homo faber”, nel senso rinascimentale del termine. Pensate a Galileo: il cannocchiale era stato inventato per avvistare le navi, non certo per studiare il moto delle stelle. Alle stelle pensavano i teologi. Lui invece voleva indagare gli astri, e si mise contro la lobby più potente del suo tempo, per farlo. É un’immagine che per me rappresenta molto: una formidabile lezione di curiosità per il nuovo, di autonomia di pensiero, di coraggio di esplorare l’ignoto. Gli architetti devono vivere sulla frontiera, e ogni tanto attraversarla per vedere che cosa c’è dall’altra parte. Anche loro devono usare il cannocchiale per cercare ciò che non è scritto sui sacri testi. Brunelleschi non progettava solo edifici, ma anche le macchine per costruirli. Racconta Antonio Manetti come avesse studiato il meccanismo dell’orologio per applicarlo a un sistema di grandi contrappesi: con questo sistema fu sollevata l’armatura della Cupola. È un bellissimo esempio di come l’architettura sia anche ricerca.

[ L’architetto Renzo Piano – © Vincent Dargent / Abacapress / Alamy Live News ]

E ci fa riflettere su una cosa importante: tutti coloro a cui oggi guardiamo con “reverenza” come classici, ai loro tempi sono stati grandi innovatori, sono stati “moderni”. Hanno trovato la loro strada provando e rischiando. Nella motivazione del premio la giuria ha fatto un riferimento a Brunelleschi che mi riempie di orgoglio e di imbarazzo nello stesso tempo. Non è un modello raggiungibile, o anche solo avvicinabile. Se devo misurarmi con qualcuno, penso piuttosto a Robinson Crusoe: un esploratore capace di muoversi in terre sconosciute. L’architettura è un’arte. Usa una tecnica per generare un’emozione, e lo fa con un linguaggio suo specifico, fatto di spazio, di proporzioni, di luce, di materia (la materia per un architetto è come il suono per un musicista, o le parole per un poeta).

[ La leggerezza in un progetto di Renzo Piano: Centro culturale Jean-Marie Tjibaou a Numea ]

Per me è molto importante un tema, quello della leggerezza (che ovviamente non si riferisce solo alla massa fisica degli oggetti). Al tempo dei miei primi lavori era un gioco: una sfida un po’ ingenua fatta di spazi senza forme e di strutture senza peso. In seguito, questo è diventato il mio modo di essere architetto. Io cerco di utilizzare in architettura elementi immateriali come la trasparenza, la leggerezza, la vibrazione della luce. Credo che facciano parte della composizione quanto le forme e i volumi. E come in tutte le arti ci sono momenti difficili. Creare significa scrutare nel buio, rinunciare ai punti di riferimento, sfidare l’ignoto. Con tenacia, con insolenza, con ostinazione. Senza questa ostinazione, che io trovo talvolta sublime, si resta alla periferia delle cose. Finisce l’avventura del pensiero: comincia l’accademia. Per creare veramente l’architetto deve accettare tutte le contraddizioni del suo mestiere: tra disciplina e libertà, tra memoria e invenzione, tra natura e tecnologia. Non si può sfuggire: se la vita è complicata l’arte lo è ancora di più. L’architettura è tutto questo: società scienza e arte. E, come l’iceberg, è il risultato di una stratificazione che dura da migliaia di anni. Come l’iceberg, è una massa in continuo cambiamento: il ghiaccio continuamente si scioglie e si riforma con l’acqua di oceani diversi. L’architettura è così lo specchio della vita. Per questo io vedo in essa prima di tutto la curiosità, l’ansia sociale, la voglia di avventura: sono queste le cose che mi hanno sempre tenuto fuori dal tempio.

[ Biosfera nel porto antico di Genova – © Christine Zenino (Wikimedia – CC BY 2.0) ]

Sono nato in una famiglia di costruttori, e questo mi ha dato un particolare rapporto con il “fare”. Ho sempre amato andare in cantiere con mio padre e vedere le cose nascere dal nulla, create dalla mano dell’uomo. Per un bambino il cantiere è magia: oggi vedi un mucchio di sabbia e mattoni, domani vedi un muro che sta in piedi da solo, alla fine tutto diventa un edificio alto, solido, dove la gente può abitare. Sono un uomo fortunato: ho passato tutta la vita a fare ciò che sognavo da bambino. Nel 1945 avevo sette anni, e iniziava il miracolo della ricostruzione dopo la guerra. Sappiamo che in nome del progresso e della modernità si sono dette e fatte tante sciocchezze. Ma per la mia generazione la parola “progresso” ha significato davvero qualcosa. Ogni anno che passava ci separava dall’orrore della guerra e di giorno in giorno la nostra vita sembrava migliore. Crescere in quegli anni ci ha dato una fede ostinata nel futuro.

[ Stavros Niarchos Foundation Cultural Center a Atene – © Moreno Maggi / Salini-Impregilo ]

Appartengo a una generazione di persone che ha mantenuto per tutta la vita un approccio sperimentale, esplorando campi diversi, profanando le frontiere tra le discipline, mescolando le carte, prendendo rischi e facendo errori. E questo in terreni diversi. Dal teatro alla pittura, dal cinema alla letteratura e alla musica. Senza mai parlare di cultura. Cultura è una parola fragile, che, come un fantasma, può svanire nel momento stesso in cui la evochi. Tutto ciò ti fa crescere istintivamente ottimista e ti fa credere nel futuro. È inevitabile. Ma nello stesso tempo ami il passato (essendo italiano, o meglio europeo, non puoi fare diversamente): e quindi vivi sospeso tra la gratitudine verso il passato e una grande passione per la sperimentazione, per l’esplorazione del futuro. Mi vengono in mente le parole di Francis Scott Fitzgerald che concludono “Il grande Gatsby” (nella bellissima traduzione in italiano di Fernanda Pivano): “Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato”. È una splendida immagine, che rappresenta la condizione umana. Il passato è un rifugio sicuro. Il passato è una costante tentazione. E tuttavia il futuro è l’unico posto dove possiamo andare, se davvero dobbiamo andare da qualche parte».

Renzo Piano e i giovani
Dal 30 agosto 2013 Renzo Piano è pure senatore a vita della Repubblica Italiana, nominato dall’allora Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Politica deriva da “politikos”, che è l’aggettivo di “polis” e significa tutto ciò che riguarda la città e il cittadino. Seguendo questa strada il senatore a vita Renzo Piano ha deciso di occuparsi delle periferie che rappresentano la città del futuro o, se preferite, il futuro della città. Lo sta facendo attraverso il gruppo di lavoro “G124” che prende il nome dal numero dell’ufficio del senatore a Palazzo Giustiniani, trasformato in un laboratorio per progettare la riqualificazione delle periferie delle città italiane. La parte più popolata ma anche più fragile del tessuto urbano e, soprattutto, quella che lasceremo in eredità ai nostri figli. Ovvero la città che sarà.

[ Piano con il presidente Giorgio Napolitano nella stanza “G124” nel 2014 – © Claudio Morelli ]

Nel gruppo “G124” lavorano con contratto annuale dodici giovani architetti che vengono pagati con lo stipendio parlamentare di Renzo Piano che è stato interamente destinato a questo progetto. Ogni anno gli architetti verranno sostituiti da altri selezionati attraverso un apposito bando. A coordinare il lavoro, oltre allo stesso senatore, ci sono i tutor: architetti, ingegneri, sociologi e psicologi scelti personalmente da Renzo Piano che, volontariamente e senza percepire alcun stipendio, si occupano di seguire i progetti sviluppati dai giovani. La cui formazione è un progetto in se stesso. Il gruppo “G124” lavora su diversi temi che riguardano le periferie: l’adeguamento energetico, il consolidamento e il restauro degli edifici pubblici, i luoghi d’aggregazione, la funzione del verde, il trasporto pubblico e i processi partecipativi per coinvolgere gli abitanti nella riqualificazione del quartiere dove vivono. Così che ogni cittadino possa contribuire a rendere più bella la “polis” che sarà.

[ Squadra di giovani architetti con Renzo Piano e i tutor nel 2019 – © Alessandro Lana ]

Anche da ciò si evince che Renzo Piano, nonostante sia uno dei più affermati e importanti architetti a livello internazionale, non disdegna tramandare il suo “mestiere” alle nuove generazioni. Nel 2004 ha pure costituito la “Fondazione Renzo Piano”, un ente no-profit dedicato alla promozione di molteplici attività, fra cui la conservazione e la valorizzazione dell’archivio dello Studio Renzo Piano, la formazione e la didattica rivolta a giovani architetti con stage presso gli studi del “R.P.B.W.” di Genova e Parigi, l’assegnazione di borse di studio, la pubblicazione di libri e la promozione di mostre. Le esposizioni delle opere del “R.P.B.W.”si sono tenute in molte città del mondo, tra cui Londra, Shanghai, New York, Padova, Parigi e, più recentemente, a Toronto.

[ L’architetto Renzo Piano – © Guy Bell / Alamy Live News ]

Il “Renzo Piano Building Workshop” (R.P.B.W.) impiega molti professionisti, in prevalenza giovani: circa 120 architetti e 30 dipendenti di supporto, tra cui artisti della visualizzazione 3D, responsabili BIM, modellisti, archivisti e personale amministrativo e di segreteria. Finora il “R.P.B.W.” ha intrapreso e portato a termine con successo oltre 140 progetti in tutto il mondo ed ha una trentina progetti in progress, sparsi su quattro continenti. Ora, a 87 anni, Renzo Piano predilige progettare o ristrutturare musei e riqualificare zone industriali in disuso in aree culturali. È stato chiesto a Renzo Piano perché adesso preferisca realizzare progetti con forte valenza culturale e lui ha risposto: «Abbiamo bisogno di eccellenza, abbiamo bisogno di cultura, non mi interessano tanto i cenacoli intellettuali, quanto l’arte viva, da condividere, anche se ovviamente non ci si dimentica dei bisogni primari. Ma l’arte accende una strana luce negli occhi di chi la vive, rende le persone migliori. Spero che le mie opere rendano anche le città migliori».