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Abbiamo immolato il benessere sull’altare del profitto…

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di Annalisa Borghese

L’abbiamo fatto dando al benessere una definizione materiale che potesse giustificare tanto affanno. Tutto ciò che non è quantificabile, misurabile, riconducibile a cifre esula dalla definizione e quindi poco importante. Ci sono voluti secoli per rendersi conto che non è così. Per toccare con mano e vivere sulla propria pelle che il benessere è un concetto molto più ampio e in quanto tale non può esaurirsi in misurazioni e cifre. Non può perché l’essere umano non può essere “misurato” così.

Intanto questa idea si è ben radicata dentro di noi. E in un certo senso ci ha tenuto a galla nel lungo periodo del primo Novecento quando due guerre mondiali avevano messo intere nazioni in ginocchio. Ma oggi c’è bisogno di altro e in questo “altro” il benessere assume connotazioni profonde. La rivoluzione diventa un’evoluzione a partire da chi siamo e da come stiamo con noi stessi. Non più contro qualcosa o qualcuno, ma per qualcosa e qualcuno. Il benessere è un bene comune e, in un circolo virtuoso, il bene comune genera benessere.

Da questo presupposto parte l’evoluzione dell’economia in una direzione chiara in cui il fine è inscritto nell’originale parola oikonomìa che sta ad indicare “la cura della casa” (comune). L’accumulo di denaro in modo illimitato non è economia, ma crematistica e già ne parlava Aristotele.

L’economia del bene comune

Diverse aziende hanno aderito al modello alternativo del bene comune, facendo da apripista, e i risultati ci sono. Ascoltate i due minuti di intervista a Christian Felber, economista e non solo, fondatore e maggiore esponente del movimento “L’economia del bene comune”: “un’economia che ha futuro”.

 

Da accompagnare ad una tazza di rooibos, il profumato tè rosso africano.

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